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Channel: CINEMAFRICA | Africa e diaspore nel cinema
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Due voci contro, tra letteratura e cinema

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Si sono spenti tutti e due il 6 febbraio, a poco meno di ottant'anni, due scrittori che hanno lasciato il segno nella storia della letteratura del Novecento, attraversando anche il cinema, come cineasti e fonte d'ispirazione. André Brink, sudafricano del Free State, era in volo da Louvain, dove l'università gli aveva appena conferito un dottorato honoris causa. Assia Djebar, algerina di Cherchell, è morta in un ospedale di Parigi, dopo una lunga malattia.

Erano intellettuali contro, che hanno preso posizioni fortemente critiche nei confronti del potere politico dei rispettivi paesi: Brink è stato uno dei primi scrittori afrikaaner a scrivere contro l'apartheid, in anni - il suo Looking for Darkness, prima pubblicato in afrikaaner, nel 1973, fu il primo libro bandito dal regime - nei quali il Sudafrica veniva considerato un partner commerciale importante e pienamente inserito nella comunità internazionale. A Dry White Season (1979), probabilmente il romanzo più noto, ambientato nella stagione della rivolta di Soweto (1976), sarebbe stato portato sullo schermo solo dieci anni dopo, nel 1989, in piena campagna internazionale anti-apartheid, dalla martinicana Euzhan Palcy, un film realizzato dalla MGM con un cast stellare e liberal.

Assia Djebar (all'anagrafe Fatima-Zohra Imalayen), nonostante sia stata una figura di estrema rilevanza nel panorama della letteratura francese, prima scrittrice maghrebina a conquistarsi un posto nel pantheon mondiale, riconosciuta dalla stessa Académie Française e da tante altre istituzioni, e autrice di numerosi romanzi particolarmente influenti sulla scena letteraria, sia nel primo periodo (1957-69) che nel secondo (dal 1980 in avanti), ha attraversato e segnato la cultura letteraria di almeno tre paesi, Algeria, Francia e Stati Uniti, senza legare curiosamente il suo nome a nessun progetto di adattamento cinematografico.

E tuttavia Djebar ha saputo e con fertile originalità, lei stessa, utilizzare il mezzo cinematografico, cercando proprio nel differente linguaggio del cinema un'opportunità per recuperare il rapporto con il proprio paese d'origine, e con la storia dimenticata della lotta condotta dalle donne del suo paese contro il potere coloniale e patriarcale. Nacquero così film unici nel panorama del cinema arabo e africano, prodotti entrambi dalla RTA, la televisione di stato algerina, La Nouba des femmes du mont Chenoua (1977) e La Zerda ou les chants de l'oubli (1979): il primo, un film di finzione che recuperava anche interviste con personaggi reali, fu accolto con grande entusiasmo alla Mostra di Venezia, vincendo il Premio della critica internazionale. Il secondo, un film di montaggio che riscriveva l'archivio coloniale, rovesciando di segno i vecchi cinegiornali Pathé, ha aperto strade riprese solo diversi anni dopo da registi come John Akomfrah, Theo Eshetu, Gianikian e Ricci Lucchi, Aryan Kaganof.

Prima e dopo, entrambi hanno continuato a riflettere sul cinema e a sviluppare nuovi progetti che si interrogavano sulle diverse possibilità del mezzo. Brink già alla metà degli anni Settanta aveva collaborato come dialoghista o sceneggiatore a diversi film, diretti da Sias Odendaal, Koos Roets, Marie du Toit e Franz Marx. Djebar avrebbe codiretto nel 1990 un documentario con Merzak Allouache dal titolo Femmes en mouvement, ispirato due documentari al connazionale Kamel Dehane (Femmes d'Alger, 1992; Assia Djebar, entre ombre et soleil, 1993) e avrebbe continuato usare la retorica filmica per decostruire la struttura narrativa dei suoi romanzi, Ombre sultane (1987), Vaste est la prison (1995), talvolta addirittura partiti come progetti cinematografici (Femmes d'Alger dans leur apartement, 1980).


TIMBUKTU e SELMA in sala il 12 febbraio

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Arrivano nelle sale italiane il 12 febbraio due film da non perdere, che vi invitiamo ad andare a vedere al più presto: l'uscita in contemporanea può essere infatti rischiosa per due film importanti, ma certo non mainstream, e che si indirizzano per di più ad uno stesso tipo di pubblico.

Dunque cerchiamo di andarli a vedere e di sostenerli anche con il passa parola!

TIMBUKTU
Presentato all'ultimo Festival di Cannes, candidato agli Oscar come Miglior film straniero e ai Cèsars con ben 8 nominations: stiamo parlando del film Timbuktu del regista Abderrahmane Sissako, che esce finalmente nelle sale italiane dal prossimo 12 febbraio, distribuito da Academy Two.
Nel film, non lontano da Timbuktu, governato da religiosi estremisti, Kidane conduce una vita pacifica tra le dune, circondato da sua moglie e i suoi figli. In città la gente soffre il potente regime di terrore imposto dai Jihadisti. Le donne sono diventate ombre che cercano di resistere con dignità. Kidane e la sua famiglia sembrano sono stati risparmiati dal caos che regna in città. Ma il loro destino cambierà quando Kidane uccide accidentalmente Amadou, il pescatore che massacrò GPS, la sua amata mucca. Ora dovrà far fronte alle nuove leggi degli occupanti stranieri.

Guarda il trailer:
https://www.youtube.com/watch?v=ZvZNg4R-yUg

SELMA
In lizza con due candidature agli Oscar, per il Miglior Film e per la Miglior Canzone, diretto dall'afroamericana Ava DuVernay, uscirà nelle sale italiane il 12 febbraio. Ambientato negli Stati Uniti durante la presidenza Johnson, Selma - La strada per la libertà racconta la marcia di protesta che ebbe luogo nel 1965 a Selma, Alabama. Guidata da un agguerrito Martin Luther King, questa contestazione pacifica aveva lo scopo di ribellarsi agli abusi subiti dai cittadini afroamericani negli Stati Uniti e proprio per la sua natura rivoluzionaria venne repressa nel sangue.

Guarda il trailer:
https://www.youtube.com/watch?v=ahBW5F3nhAo

[Maria Coletti]

Lo sguardo sullo sguardo

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Per ricordare la figura di Assia Djebar da poco scomparsa, oltre all'omaggio di Leonardo De Franceschi vi riproponiamo anche questa ricerca di Vanessa Lanari che avevamo pubblicato nel novembre 2006.

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Nel saggio critico di Alessandro Triulzi, intitolato Lo sguardo coloniale. Appunti sulla costruzione dell'altro nella collezione fotografica della Società africana d'Italia, presente nel volume Occidentalismi della rivista «Parolechiave» [1], si affronta la difficile questione della costruzione dello sguardo occidentale sull'altro, a partire dalla scoperta e conquista del Nuovo Mondo da parte dell'Europa. Lo “sguardo coloniale”, nato da una condizione di reale dominazione fisica sull'altro, ha veicolato un'immagine e una rappresentazione del diverso che è stata assunta come parametro assoluto da noi, ma sentita come una falsificazione della propria realtà da parte delle popolazioni colonizzate. La storia dell'altro, infatti, è stata costruita unicamente a partire dalla proiezione dello sguardo dell'occidente colonizzatore: rappresentazioni esotizzanti, fornite alla fine del diciannovesimo secolo dalla pittura europea, relazioni militari e cronache di viaggio, fino ad arrivare, ai giorni nostri, ai documentari “etnografici” di cineasti europei, sulla cui visione dell'altro, lo scrittore e cineasta senegalese Ousmane Sembène dichiara: «Ciò che rimprovero ai film etnografici, è il fatto di osservarci come fossimo insetti» [2].
La scrittrice, cineasta e storica algerina Assia Djebar, in quest'ottica dello sguardo dominante, ha recuperato il materiale di scarto filmico e fotografico delle attualità cinematografiche “Gaumont-Pathé”, prodotte dai francesi nel trentennio 1912-1942 – acquistato e conservato successivamente negli archivi della radio-televisione algerina, la RTA – per realizzare un lungometraggio, intitolato La Zerda et les chants de l'oubli (La Zerda e i canti dell'oblio, 1982).
La particolarità del lavoro dell'autrice consiste nell'aver voluto rovesciare la prospettiva dello sguardo del colonizzatore sulle popolazioni maghrebine, utilizzandone gli stessi strumenti, cioè i filmati d'epoca, che ne documentavano le usanze e le cerimonie. La Djebar, sfruttando il materiale filmico e fotografico per mezzo del quale il francese presentava e giustificava una visione folcloristica e turistica del mondo maghrebino, inserisce, però, nel montaggio della Zerda una serie di musiche e di testi, che, accostati alle immagini di repertorio del colonizzatore, le permettono di dare un nuovo significato al documento stesso. Questa operazione consente di dare visibilità a ciò che era stato, secondo l'autrice, fino a quel momento offuscato, ovvero il punto di vista dell'altro.
La Zerda et les chants de l'oubli viene diviso dall'autrice in quattro canti – le cui parole vengono lette o proiettate sullo schermo per fare da contrappunto alle immagini – intitolati rispettivamente “Canto dell'insubordinazione”, “Canto dell'intransigenza”, “Canto dell'insolazione” e “Canto dell'emigrazione”: canti che corrispondono, così, ai diversi periodi della storia dell'occupazione francese nel Nordafrica.
Il testo introduttivo del documentario spiega che la Zerda è la festa che, in Algeria, celebra la fine della vendemmia. Loro, i francesi, hanno cercato di filmarla e raccontarla, assieme a numerose altre danze e cerimonie tradizionali, ma il risultato di tale tentativo, nel contesto di un Maghreb totalmente annientato e ridotto al silenzio, ha falsificato la rappresentazione di coloro che i colonizzatori volevano dipingere.

Il primo canto della Zerda, intitolato il “Canto dell'insubordinazione”, si riferisce al periodo iniziale della colonizzazione francese, avvenuto attorno agli anni ‘30 del diciannovesimo secolo. Vengono qui evocate le rivolte degli emiri arabi contro i tentativi iniziali di espansione francese.
Le immagini mostrano una serie di danze e cerimonie tradizionali maghrebine, tra cui la Zerda, mentre una voce fuori campo enumera una serie di date che definiscono l'inizio dei protettorati inglesi e francesi nel Nord dell'Africa. Ad Algeri, nel 1913, molti algerini sono costretti ad imbarcarsi per l'Europa.

Il canto successivo, il “Canto dell'intransigenza e delle guerre di guerriglia”, compie un notevole salto cronologico nel passato: l'autrice rivendica le origini ancestrali della propria terra ben oltre la dominazione araba del Maghreb, fino ad arrivare a recuperare la storia dell'antica Cartagine, il periodo delle dominazioni romane ed a rievocare personaggi storici come Annibale e Giugurta.
Vengono proiettate diverse immagini fisse che illustrano volti umani, appartenenti ad etnie differenti, mentre il commento della voce fuori campo denuncia le riprese dei fotografi e degli operatori cinematografici europei che, dopo la conquista, hanno immortalato le popolazioni africane a piedi scalzi e con la pancia vuota. Nel frattempo compare la scritta: «Morti per la Francia, 50.000 algerini».

Il terzo canto, intitolato “Canto dell'insolazione e dei secoli distesi nella sabbia”, risale ulteriormente indietro nel tempo, evocando l'origine comune della razza umana nel continente africano.
Le scene mostrano immagini di ufficiali francesi a cavallo che passano in rassegna schiere di uomini e donne maghrebine. Una voce femminile dichiara:
–«Ci sorvegliano, ci guardano».
E poi:
–«Si congratulano», mentre viene proiettata l'immagine di un ufficiale francese che sta baciando giovani ballerine algerine, che sono esibite davanti allo straniero.

Il quarto canto, intitolato “Canto dell'emigrazione e di quelli che partono come schiavi dei popoli nordici”, richiama alla memoria la partenza di tutti i maghrebini che sono stati arruolati come soldati per combattere negli eserciti francesi.
Immagini del 1939: scene di reclutamento, nei caffè, di uomini maghrebini, poiché l'Africa settentrionale è diventata di importanza strategica nella seconda guerra mondiale. E ancora, immagini di bestiame che viene imbarcato con violenza sulle navi francesi, assieme ai vari generi alimentari destinati all'Europa. Si sentono e si vedono bambini algerini cantare l'inno nazionale francese. La voce fuori campo dichiara: «Siamo diventati portatori di letame».

L'architettura del documentario consiste nella contrapposizione permanente tra la parte sonora e quella visiva: da un lato, la lettura dei “canti”, la denuncia del proprio passato, le lamentele e i canti di voci anonime maghrebine; dall'altro, le immagini e le fotografie del colonizzatore francese. Tale contrasto diventa il principio fondamentale per attuare una sorta di “de-costruzione” dello sguardo occidentale e dimostrare come le immagini consegnate alla storia dal colonizzatore siano in realtà pervase dall'assenza della voce dell'altro, e quindi del suo punto di vista.
Il commento delle voci inserite da Assia Djebar, infatti, negando ciò che le immagini evidenziano e svelando ciò che viene storicamente “velato”, creano una frattura talmente manifesta tra le diverse interpretazioni di una stessa realtà, da suscitare nello spettatore una inevitabile riflessione sulla difficoltà di raccontare la Storia. O meglio sulla necessità dell'altro di raccontare la propria storia. Il valore dell'operazione tentata dalla storica algerina non risiede tanto nella volontà di annullare la storia filmata e narrata dai colonizzatori occidentali, dimostrando la totale falsità delle loro affermazioni, quanto nella capacità di rendere evidente la falsificazione delle immagini e della realtà che esse intendono fornire.
Alla base del discorso politico della Djebar è presente la volontà di ritagliarsi uno spazio all'interno della grande Storia e di fornire il punto di vista di coloro che sono stati da sempre occultati e dimenticati. L'accusa diretta dall'autrice nei confronti delle società occidentali è di aver avuto uno sguardo che in realtà non si proponeva di conoscere e approfondire l'interesse verso la cultura dell'altro, ma di produrre uno sguardo “superiore” e “depredatore” nei confronti del diverso. Il colonizzatore, archiviando, illustrando e controllando le usanze delle società arabe, africane e orientali, ha prodotto uno sguardo coloniale, il cui scopo fondamentale consisteva nell'occultamento e nell'oblio della presenza dell'altro.
A questo tipo di oblio si riferisce la seconda parte del titolo del documentario, alludendo contemporaneamente alla dimenticanza di cui sono ugualmente responsabili gli algerini, poiché, a loro volta, si sono dimenticati di trasmettere la propria storia alle generazioni successive. L'oblio della Djebar si riferisce all'oblio degli “obliati” e alla necessità di riappropriarsi di ciò di cui si è stati “de-posseduti”.
Sull'importanza della rielaborazione critica del proprio passato, lo storico burkinabè Joseph Ki-Zerbo ha dichiarato: «Ho avuto la fortuna di studiare il latino: Cicerone, Sallustio, Tacito. Eppure mi rendo conto che ciò che è importante non è quello che abbiamo imparato in latino, ma ciò che abbiamo dimenticato in africano. Dobbiamo considerare la storia autoctona, non quella che ci hanno imposto da fuori» [3].
Il problema della costruzione di una storia personale per l'altro non viene posto nei termini di un antagonismo di fondo nei confronti delle società occidentali, ma di un problema di ruolo e di identità da assumere. Ancora Ki-Zerbo sostiene: «Non vogliamo coltivare la recriminazione e l'odio, ma rifondarci e ritrovare la nostra identità» [4]. Senza identità, ovvero senza la possibilità di cercare le proprie radici nel passato, si corre il pericolo di diventare uno strumento manipolato dagli altri.


[1] AA.VV., Occidentalismi, «Parolechiave», n. 31, Roma, Carocci editore, giugno 2004

[2] Sada Niang (a cura di), Littérature et cinéma en Afrique francophone. Ousmane Sembène et Assia Djebar, Paris, L'Harmattan, 1996, p. 51.

[3] Joseph Ki-Zerbo, Appunti sulla storia dell'Africa e dell'umanità, conferenza tenutasi alla Facoltà di Lettere e Filosofia – Università La Sapienza di Roma, 11 settembre 2002, documento internet.

[4] Ibid.


La Zerda et les chants de l'oubli(La Zerda e i canti dell'oblio)
Regia e sceneggiatura: Assia Djebar; soggetto: Assia Djebar, Malek Alloula; montaggio: Nicole Schlemmar; musica: Ahmed Essyad; origine: Algeria, 1982; formato: 16 mm; durata: 57'; produzione: RTA

Timbuktu: violare e resistere in un sussurro

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In occasione dell'uscita nelle sale italiane, il prossimo 12 febbraio con Academy Two, vi riproponiamo la recensione del film che avevamo pubblicato in occasione della presentazione in concorso al Festival di Cannes.

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Nel mio articolo d'apertura, scrivevo che questa edizione sarebbe stata ricordata come quella della definitiva consacrazione di Abderrahmane Sissako. Se anche Timbuktu non dovesse ricevere nessun premio, l'impatto che il film ha avuto sulla stampa francese e internazionale, nonostante la collocazione in apertura di festival, consentiranno auspicabilmente al 53enne regista mauritano-maliano di vedere riconosciuta quella centralità nel panorama del cinema contemporaneo che la sua meditata tempistica produttiva (appena quattro lungometraggi in venticinque anni di attività) e discutibili scelte di programmazione (come la collocazione fuori concorso di Bamako a Cannes nel 2006) hanno ritardato nella percezione dei più. Ma appare in ogni caso improbabile che il suo metodo, mai così coerente ed efficace, ne risulti in qualche modo modificato. La necessità di affrontare un tema legato alla storia recente di uno dei suoi paesi d'origine non lo ha portato a sacrificare in nulla il personale percorso di decantazione stilistica che ha iniziato nel lontano 1989 col suo film di diploma al VGIK, Le jeu.

Ma veniamo al plot, senza troppo rivelare delle sue puntuali articolazioni narrative. In un villaggio del nord del Mali, occupato dalle milizie di un gruppo islamico radicale, i djihadisti tiranneggiano gli abitanti imponendo loro interdizioni e prescrizioni che toccano tutti gli aspetti della vita, e limitano in modo drastico soprattutto la libertà personale delle donne: viene imposto l'uso del velo nero integrale e dei guanti, proibita ogni attività ludica, artistica e di socialità pubblica (la musica, la danza, il calcio, le sigarette, il possesso di maschere o statuette tradizionali, persino la permanenza prolungata fuori casa), avocata l'amministrazione dell'ordine pubblico e della giustizia a miliziani o giudici venuti da fuori, che a malapena parlano tamasheq. A questo clima di violenza e intimidazione, gli uomini reagiscono eclissandosi, con l'eccezione dell'imam della moschea, mentre le donne assumono il coraggio di tenere testa come possono alla tracotanza degli occupanti.

Da tutto questo sembrano risparmati l'allevatore tuareg Kidane, sulla trentina, e la sua famiglia, composta dalla moglie Satima, dalla figlia Toya di undici anni e dal più o meno coetaneo Issan, che hanno preso a lavorare con loro. Vivono in una tenda tradizionale fuori dal villaggio ma sono rimasti da soli, col loro piccolo gregge di mucche, tra cui GPS, la preferita di Issan. A farli sentire in pericolo sono le insistite visite alla tenda di Abdelkrim (Adel Jafri), uno dei capi djihadisti, quando Kidane non è in casa. Ma il loro equilibrio precario viene stravolto da un incidente, allorché Kidane ferisce mortalmente per errore un pescatore che a sua volta aveva ucciso GPS per difendere le sue reti. Kidane finisce così nell'implacabile ingranaggio della giustizia impartita dalle corti islamiche, secondo logiche sempre più estranee al dettato coranico e funzionali solo all'intento di spezzare ogni fonte di energia vitale e di speranza nella popolazione locale.

Fin qui l'intreccio base. Come i film precedenti di Sissako, e in particolare Heremakono - Alla ricerca della felicità (2002), il racconto si articola secondo una dimensione corale, rapsodica, che introduce una pluralità di microstorie e personaggi di contorno, diversamente rilevanti ai fini di un'economia sociosimbolica del testo. Lungi dal configurare semplicemente un accumulo puntillista di ritratti, digressioni o notazioni d'ambiente, secondo una logica di estetica compositiva, questa organizzazione del discorso consente al regista di affinare un discorso sul potere islamista che non accetta facili scorciatoie né si presta a una retorica da scontro delle civiltà. Questi uomini vengono perlopiù dall'esterno (almeno i capi; tra i sottoposti diversi parlano tamasheq), ma diversi di loro si rapportano con la popolazione locale esprimendo umanità, fragilità, persino tracce di un'innocenza tradita: il giovane rapper neoconvertito non riesce a registrare un'audioconfessione, il più maturo djihadista si ritaglia un momento per abbozzare un assolo di danza, il giudice incaricato di decidere sulla sorte di Kidane si preoccupa per la sorte di Toya, i miliziani incaricati dell'ordine pubblico litigano sulle gesta di Messi e Zidane.

Dall'altra parte ci sono quelli che a calcio sono disposti a giocare pure senza pallone, la giovane coppia lapidata perché viveva fuori dal matrimonio (episodio ispirato, come quello di Kidane, a un vero fatto di cronaca, che ha imposto a Sissako il bisogno di realizzare il film) e le donne, vittime di matrimoni forzati con i miliziani, costrette a subire le loro prescrizioni assurde o che vivono in una bolla di tolleranza perché considerate folli, come Zabou, una donna haitiana dal portamento altero ed elegante che traversa in lungo e in largo il villaggio, irridendo gli occupanti e declamando frammenti di autoconfessione, vestita di un abito tradizionale pieno di colori e dal lungo strascico nero. E poi naturalmente Kidane e la sua famiglia, con la loro etica del quotidiano, fatta di riti semplici e un senso di integrità inattaccabile da qualsiasi violenza.

E poi ci sono gli animali. Timbuktu inizia brutalmente come un mondo movie alla Jacopetti (più propriamente come L'occhio selvaggio di Paolo Cavara, ma sulla mia memoria non scommetterei): una jeep piena di cacciatori per insano diletto insegue una gazzella. Sparano inutilmente, ma la stessa immagine torna nel febbrile e inquietante finale, carica di implicazioni ancora più esplicite. Dubito fortemente che Sissako conosca Cavara o Jacopetti, che in Africa addio si compiaceva di scioccare il pubblico borghese con l'uccisione in diretta di innumerevoli elefanti ed altri animali della savana. Forse si sarà ricordato però della terribile scena di caccia de La regola del gioco di Jean Renoir, anno 1939, in cui uno dei grandi padri della modernità cinematografica restituiva la ferocia della società altoborghese del tempo proprio in questa scena, facendo avvertire allo spettatore tutta l'insopportabile futilità di quelle uccisioni. Qui Sissako costruisce una sorta di isotopia interna al testo, un filo rosso che segna il destino di diversi animali (la gazzella, la mucca GPS, la gallina che Zabou porta sempre con sé, i muli che ostacolano il lavoro delle ronde djihadiste). La lenta, insostenibile agonia di GPS, segna l'entrata del racconto nel tempo tragico non solo sul piano simbolico ma su quello patemico. Se nel riprendere altre uccisioni, Sissako si tiene a debita distanza, qui il dettaglio del respiro che si spegne vale come un grido lancinante di dolore per la fine di un mondo pacifico e operoso, quello di Kidane e della sua famiglia ma anche e anzitutto come insostenibile documento della morte di un essere vivente. Il titolo di lavorazione del film era Le chagrin des oiseaux, la sofferenza degli uccelli.

A volte, il metodo di un regista può essere sintetizzato da una-due inquadrature. Oltre a quella della morte di GPS, filmata in dettaglio, come dimenticare il terribile campo lunghissimo, interminabile, fisso, che riprende l'attraversamento spasmodico da parte di Kidane del fiume, a lasciarsi alle spalle il corpo del pescatore, ucciso per errore nell'acme di una colluttazione: lo spettatore rimane impietrito davanti a quest'immagine di tragica e devastante bellezza plastica, con la luce di Sofian El Fani che disegna armonie cromatiche altissime, ma prima che possa avvertire l'ombra di un sospetto estetizzante, quel corpo del pescatore, che Kidane come lo spettatore pensava già cadavere, si rianima misteriosamente e compie qualche passo per crollare solo qualche passo più in là. Qui Sissako viene baciato dalla grazia di un'intuizione di scrittura che rispecchia la verità del pensiero di Bazin sul "montaggio proibito": cosa sarebbe rimasto di questa sublime, essenziale sequenza di grande cinema che vale come un haiku in immagini sonore, se Sissako avesse fatto ricorso a un corretto montaggio alternato?

Ma questi miracoli bisogna meritarseli. Una delle parole che più ricorreva nella conferenza stampa di Sissako è stata “fiducia”. Fiducia concessa dai produttori e finanziatori a un regista che ogni volta mette in piedi il rituale di una scrittura sceneggiatoriale alla Rossellini, che nasce per essere tradita. Fiducia degli interpreti, professionisti o meno, che si mettono ogni volta in gioco per tirare fuori il meglio da loro stessi. Fiducia del regista, che scommette tutto sul tavolo da gioco del set, confidando solo nel proprio istinto. Si tratta di istruire una situazione, fare un passo indietro e catturare la forza dell'istante, lasciandosi andare come il turacciolo nel fiume, per riprendere la nota immagine di Pierre Auguste che Renoir figlio non mancava mai di citare.

«Juste une image?» Sì, la forza di quest'immagine restituisce l'urgenza morale di uno sguardo che mai come in questo caso risulta tradotto in energia emozionale pura. Superando il minimalismo apparentemente svagato che raffreddava il registro dominante di Heremakono, e tenendosi alla larga dalle fratture tra lirismo e didattismo brechtiano che spezzavano il tessuto discorsivo di Bamako, Sissako raggiunge un equilibrio espressivo prodigioso nella sua fragilità, proprio perché non poggia sui toni epici di un Haroun, per esempio, ma mette a sistema la capacità di restituire la verità del reale con la sicurezza di trasformare questo apparente ascolto in una partitura sapiente, che diventa scultura del tempo. In questo tessuto narrativo equilibrato trovano posto come di consueto momenti magici di sospensione in cui il cinema si mette al servizio della musica, declinata qui come atto di resistenza per antomasia all'arbitrarietà del potere: solo un virtuoso dell'interazione tra musica e cinema come Sissako poteva restituire la forza politica della voce di Fatoumata Diawara, quando si esprime come sussurro (la sua struggente Tomboutou faso, cantata insieme a due amici, viene interrotta da una brutale incursione notturna della polizia djihadista) e come grido (quando, punita con ottanta colpi di frusta, esplode tutta la sua rabbia in un acuto che ha tutta l'energia tragica del soul).

Chi cercava in questo film un documento sulla sanguinosa guerra civile che ha insanguinato la regione settentrionale del Mali a seguito del colpo di stato nel marzo del 2012 e ha visto protagonista lo storico movimento autonomista tuareg (MNLA) di un'ambigua alleanza con gli islamisti radicali dell'AQMI oppure auspicava l'accurata ricostruzione dei fatti di cronaca cui si è ispirato, rimarrà deluso. E giustamente deluso. E non solo perché, pur lavorando con molti interpreti non professionisti maliani, come il pescatore Amadou e i due bambini incontrati nel campo profughi di M'Bera in Mauritania, Sissako è stato costretto per ragioni di sicurezza a girare in Mauritania, tra Oualata (città santa gemella di Timbuktu), Kiffa e Nema, in un set per giunta scortato da un robusto dispiegamento assicurato dal governo. La stessa guerra civile rimane una tela di fondo. Timbuktu si offre come una meditazione lirica sulla ferocia di un potere che sussurra i propri divieti, senza bisogno di gridarli. Mentre dall'altra parte non ci sono vittime ma donne e uomini che resistono con la forza stessa della loro presenza, e affrontano il proprio destino sussurrando, come Kidane, «quello che non ti ho detto, tu lo sai già».

Leonardo De Franceschi | 67. Festival de Cannes

Timbuktu
Regia: Abderrahmane Sissako; sceneggiatura: Abderrahmane Sissako e Kessen Tall; fotografia: Sofiane El Fani; montaggio: Nadia Ben Rachid; suono: Philippe Welsh, Roman Dymny, Thierry Delors; musiche: Amine Bouhafa; interpreti: Ibrahim Ahmed aka Pino, Toulou Kiki, Abel Jafri, Fatoumata Diawara, Hichem Yacoubi, Ketty Noël, Mehdi AG Mohamed, Layla Walt Mohamed, Adel Mahmoud Cherif, Salem Dendou; origine: Francia/Mauritania, 2014; formato: DCP, 1:2,35, colore, 5.1; durata: 97'; produzione: Sylvie Pialat per Dune Vision, Les films du worso; distribuzione internazionale: Le Pacte.

Timbuktu film della critica SNCCI

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Il film Timbuktu di Abderrahmane Sissako, distribuito dalla Academy Two dal prossimo 12 febbraio, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI).

Questa la motivazione:

"Sissako compone un potente mosaico, a tratti leggero, più spesso drammatico, di una quotidianità resa terribile dalle leggi imposte dagli integralisti islamici. Il suo sguardo lucido e poetico, anche nei momenti più brutali, sottolinea la crudeltà di imposizioni e divieti assurdi di un Potere assoluto e cieco. Mai così di attualità, dati i recenti fatti che hanno sconvolto il mondo, Timbuktu scrive tra il deserto e l'intolleranza un capitolo prezioso per la conoscenza e il contenuto artistico."

[Maria Coletti]

Le memorie ritrovate di René Vautier

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Domani sera, venerdì 13, a Roma, Marmorata 169 e WSP Photography presentano "Memorie ritrovate: Storie di Immagini, Immagini di Storia", una serata-omaggio a René Vautier a cura di Aude Fourel con la presenza di Valeria Deplano, ricercatrice in storia contemporanea (Università di Cagliari).
In programma alcuni cortometraggi di e con Vautier, leggendario documentarista francese recentemente scomparso, tra le colonne del cinema anticolonialista. Tra questi l'inedito Le ginestre (Les Ajoncs, 1970), interpretato dall'attore e regista algerino Mohamed Zinet (Tahia ya Didou, 1971

Chiude la serata il film Storie di immagini, immagini di storia (2014), ultima fatica di Vautier, girato a quattro mani con la figlia Moïra Chappedelaine-Vautier.

Appuntamento venerdì 13 febbraio, 20h30, presso la sede di WSP Photography, in Via Costanzo Cloro 58, Roma (metro B San Paolo).

Per ulteriori informazioni: http://www.collettivowsp.org/photography/?p=2627

[Leonardo De Franceschi]

I premi panafricani della Berlinale

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Chiusa la 65ma edizione della Berlinale, ricordiamo alcuni dei premi ufficiali che ci stanno particolarmente a cuore.

Nella sezione Panorama, il film Stories of Our Lives di Jim Chuchu (Kenya) ha ricevuto il secondo Premio del Pubblico e il Premio Speciale della Giuria nella competizione per il Teddy Award.

Mentre al franco-algerino Rabah Ameur-Zaïmèche è andato il Premio speciale della Giuria Ecumenica per il film Histoire de Judas, presentato nella sezione Forum.

[Maria Coletti]

Accordo cinematografico Roma-Rabat

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È stato siglato ieri a Rabat l'accordo tra Regione Lazio, Roma Lazio Film Commission e il Ministero della Comunicazione del Marocco dal quale dipende l'ISMAC, Istituto Superiore dei Mestieri dell'Audiovisivo e del Cinema di Rabat.
Hanno partecipato Mohammed Khalfi il ministro della Comunicazione del Marocco, Fabrizio Lella direzione regionale Formazione e Ricerca, Luciano Sovena presidente di Roma Lazio Film Commission, Sarim Fassi Fihri direttore del CCM Centre Cinématographique Marocain e Abdel Kahbir Berkia presidente della Regione di Rabat Sale.
L'accordo prevede la collaborazione tra Regione Lazio e ISMAC per la formazione nel settore cinema e audiovisivo: gli studenti vincitori del bando del progetto "Torno subito", realizzato in collaborazione con Ass.For.SEO, verranno inseriti all'interno del campus universitario ISMAC per corsi di studio dedicati alle tecniche di postproduzione e ripresa cinematografica e audiovisiva.
La formazione, finalizzata all'inserimento in aziende d'eccellenza del settore, prevede per gli studenti di "Torno subito" l'esperienza sui set marocchini di importanti produzioni USA (si pensi ad American Sniper, girato da Clint Eastwood a Rabat).
A breve la Regione Lazio pubblicherà i bandi per la selezione dei partecipanti dei corsi di cinema e audiovisivo di Rabat, con durata variabile dai 2 ai 6 mesi, secondo il percorso formativo.
Fonte: Cinecittà News

[Maria Coletti]


Sissako nella storia dei Prix Césars

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Qualsiasi cosa si voglia dire di Abderrahmane Sissako e del suo Timbuktu (2014), questa quarantesima edizione dei Prix Césars, gli Oscar nazionali francesi, rimarrà alla storia per le sette statuette attribuite a un film che batte anche una bandiera africana, quella della Mauritania, paese natale di Sissako e in cui il film stesso è stato girato, in condizioni logistiche e di sicurezza difficili. Il primo regista africano? Sì, se africano si può definire un regista che ha visto tutti i suoi film realizzati sulla base di produzioni maggioritariamente francesi, fin dal primo lungometraggio La Vie sur terre (1998). Sì, a patto di ricordare che il tunisino di natali Abdellatif Kechiche, che ha vinto nel 2005 per La schivata e nel 2008 per Cous cous, si è trasferito a Nizza con i genitori che aveva solo sei anni, si è formato e ha realizzato e filmato tutti i suoi film in Francia.

Timbuktu che, lo ricordiamo, racconta la resistenza di un villaggio del Sahel all'occupazione da parte di un'unità di guerriglieri islamisti, è stato presentato con successo all'ultimo festival di Cannes (qui la nostra recensione), a Toronto in settembre e poi in numerosi altri festival, uscendo nelle sale in Francia il 10 dicembre e a cascata in numerosi altri mercati, tra cui l'Italia (dal 12 febbraio). Inutile nascondersi dietro a un dito, sicuramente la sindrome post-Charlie Hebdo ha amplificato l'interesse sorto intorno a questo film, richiamando un segmento di pubblico significativo in Francia (oltre 700 mila spettatori), sollecitando l'interesse dell'Academy francese e di quella statunitense (che l'ha inserito nella lista dei nominati all'Oscar per il miglior film straniero). Non per dire ma Bamako, che nel 2006 denunciava il tema forse più scomodo per l'agenda internazionale del rapporto vizioso tra Fondo monetario internazionale, Banca mondiale ed economie dei Paesi dell'Africa saheliana, a Cannes è stato presentato fuori concorso néè stato mai preso in considerazione per un Oscar.

Tuttavia, sarebbe fare un torto alla storia personale di Sissako, autore rigoroso e riconoscibile nelle sua idea di cinema e nella poetica, attenta da sempre agli squilibri e alle dinamiche di violenza che lacerano l'Africa, ritenere che l'autore di Heremakono abbia potuto cavalcare l'ondata di emozione (peraltro relativa) seguita alla conquista da parte di ribelli tuareg e islamisti del nord del Mali nella prima meta del 2012. Da questo punto di vista, chiunque andasse a vedere il film mosso da un'islamofobia post-Charlie Hebdo, rischia di essere doppiamente deluso, visto che lo scenario dell'azione è geopoliticamente molto circoscritto e soprattutto l'etica dello sguardo di Sissako - “un mare di dolore non è un palcoscenico, poiché un uomo che piange non è un orso che balla” (Césaire) - ne fa un regista allergico a ogni forma di sensazionalismo.

Inoltre, è molto importante che per questo film siano stati premiati non solo il regista e i produttori, ma anche diversi tecnici e professionisti tunisini, da Sofian El Fani, autore della fotografia, a Nadia Ben Rachid, che firma anche in questa occasione il montaggio, e Amine Bouhafa, per le musiche originali. Gli altri premi sono andati a Sissako e Kessen Tall per la sceneggiatura, e a Philippe Welsh, Roman Dymny e Thierry Delor per il suono, mentre l'unico tra i nominati a non essere premiato è stato l'autore delle scenografie (Sébastien Kirchler).

Di seguito, riportiamo la traduzione del discorso con cui Sissako ha accolto sul palco la notizia del premio alla regia (qui il video col discorso in originale):

"Vorrei anzitutto ringraziare semplicemente tutti quelli che hanno aiutato la realizzazione di questo film. Sono molto numerosi. Vorrei ringraziare il mio paese, la Mauritania, che in un momento estremamente critico ha accettato di proteggere una troupe di francesi, di stranieri e anche di mauritani. È stato qualcosa di terribile ma l'abbiamo fatto.

Un film è un'avventura straordinaria. Un film è fatto di incontri. Il mio primo incontro è stato con la città di Parigi che mi ha accolto a 22 anni, quando sono venuto da Mosca e sono stato accolto dalla Francia. Ho fatto tutto questo lavoro di regista con il sostegno di ARTE, il canale ARTE. Senza ARTE, penso che non sarei potuto essere il regista che sono oggi. Penso a questo. Penso alla straordinaria capacità di questo paese di includere molte persone e penso che questa Francia, straordinaria, ha appena provato ancora una volta che è un Paese straordinario, aperto agli altri, altrimenti non avremmo avuto tanti Césars. Questa Francia straordinaria è anche questa Accademia del cinema che ci ha incluso in questa grande famiglia del cinema. Questa Francia è anche il poco meno di un milione di persone che sono andate al cinema per vedere questo film, sono donne, uomini, che sono francesi e anche non francesi, stranieri. Penso molto a loro questa sera perché io non li conosco ma sento profondamente il loro amore verso questo cinema che è il cinema dell'umanità e dell'umiltà.

Questa Francia ha avuto fiducia di noi, in una forma di urgenza, perché quando ho deciso di fare questo film, tutto si è svolto velocemente, grazie a una signora straordinaria, Sylvie Pialat, che ha la qualità indispensabile a un produttore e una produttrice, di credere alle cose e di prendere dei rischi. Lei ha preso i stessi nostri rischi perché non è rimasta a Parigi è venuta tre volte a Oualata, e tre volte a Oualata significa due giorni di viaggio in auto dalla capitale a questa città e questo è qualcosa di straordinario. È stato straordinario il lavoro con la squadra di Les Films du Worso. È stato straordinario avere la fiducia di Jean Labadie su due pagine e un desiderio molto forte di fare questo film. Lui ci ha creduto e ci ha sostenuto così come la Francia.

Ma penso anche profondamente alle centinaia e centinaia di persone in Mauritania che non hanno la possibilità che hanno molte persone di fare dei film. Quindi ho scelto il mio secondo e terzo assistente tra loro e loro mi hanno scelto e hanno avuto fiducia di me. Queste persone non sono a Parigi ma credo che la maggior parte di loro ci stia guardando. Ma al di là della Mauritania è anche l'Africa che ci guarda. Questo continente straordinario di cui si parla raramente per la sua bellezza, per la sua forza, ma è un continente straordinario, bello e forte, che anch'esso ci guarda. Questo è quindi qualcosa che condividiamo. Vorrei molto sinceramente ringraziare perché se siamo qui stasera è perché c'è un avvenimento, un'istituzione che ha dato tutta la possibilità a Timbuktu e questo è il Festival di Cannes. Penso che senza il Festival di Cannes non sarei qui. La prima luce su Timbuktuè Cannes che l'ha fatta. Vorrei che salutassimo questo festival magnifico.

Vorrei anche salutare tutti gli attori che hanno portato avanti quest'avventura con me e che sono nella sala. Parlo di Toulou Kiki, di Abel Jafri, di Hichem Yacoubi, di Ahmed Ibrahim detto Pino, di Zikra [Oualet Moussa] che non è qui ed è maliana, di Weli [Cleib], di Salem [Dendou], tutte queste persone straordinarie che per la maggior parte non avevano mai girato un film... Questa coppia straordinaria che ha avuto fiducia nel cinema, Toulou e Pino, siete meravigliosi e vi ringrazio molto. Grazie a tutti e, per terminare, vorrei abbracciare forte mia moglie che mi ha accompagnato in tutto questo tempo, abbiamo scritto insieme il film, i nostri figli, che ci guardano probabilmente, salvo il più piccolo che ha tre settimane. Bravi a tutti. La Francia è un paese magnifico perchéè capace di sollevarsi contro l'orrore, contro la violenza e l'oscurantismo. Vorrei terminare con una sola frase: non c'è scontro di civiltà, non esiste, c'è un incontro di civiltà, e questo è importante. Grazie".

Selma - La strada per la libertà

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Mentre scrivo questa tardiva recensione a Selma (2014), opera terza di Ava DuVernay, è in corso la notte degli Oscar 2015, preannunciata da una sorda polemica mossa dall'audience e dalla Hollywood nere, allorché in gennaio sono state ufficializzate le candidature, e la regista si è vista esclusa dalla cinquina delle candidature alla regia, visto che il film competeva solo nelle categorie miglior film e miglior canzone originale (Glory, di John Legend e Common - trofeo assegnato). Il dibattito che si è scatenato sulla rete intorno all'esclusione di DuVernay, ma anche di David Oyelowo dalla cinquina dei candidati al premio come miglior attore ha ruotato intorno al termine snub (affronto, mancanza di rispetto) ed è stato plasticamente rappresentato dal diluvio di tweet piovuti con l'hashtag #OscarSoWhite. In questa occasione, è emerso una volta di più come l'Academy sia composta per il 94% da membri bianchi e per il 73% maschi, nonostante lo sforzo compiuto dalla direzione di allargare la platea dei membri. La statuetta di peso riconosciuta lo scorso anno a 12 anni schiavo, primo miglior film diretto da un regista nero, avevano fatto sperare molti in un nuovo inizio dell'Academy, e invece.

Come recita il titolo, Selma racconta la storia di Martin Luther King ma anche e soprattutto di una cittadina dell'Alabama, che nel 1965 è stata per alcuni mesi al centro dell'attenzione di tutti gli Stati Uniti, in quanto teatro di tre marce di protesta compiute dalla comunità nera (e non solo) per rivendicare un'effettiva esigibilità del diritto di voto negli Stati del sud. L'arco temporale scelto da Du Vernay va dal 10 dicembre 1964, data in cui King ricevette ad Oslo il Premio Nobel per la Pace, al 2 gennaio 1965, quando il reverendo tenne un discorso al termine della terza, decisiva e trionfale marcia su Montgomery, capitale dell'Alabama, davanti al palazzo del governatore Wallace, preludio all'approvazione di una nuova legge a protezione del diritto di voto dei neri (Voting Rights Act), promulgata dal presidente Lyndon Johnson il 6 agosto 1965.

Sono passati esattamente cinquant'anni da quella data, ma gli Stati Uniti lo scorso anno sono stati dilaniati da un dibattito feroce, proprio nel mese di agosto, per i riots scoppiati in conseguenza dell'assassinio di un giovane di 18 anni, Michael Brown, nella cittadina di Ferguson, Missouri, da parte di un poliziotto bianco. I disordini susseguitisi per settimane, amplificati dal risentimento causato da altre vittime recenti di racial profiling, come il 43enne Eric Garner (17 luglio) hanno seppellito definitivamente l'aura postracial dell'era di Obama, riproponendo l'attualità della battaglia per i diritti civili. La canzone Glory (come si può vedere dal video) cita espressamente Ferguson. Ritirando il premio, i due compositori hanno dichiarato "Noi abbiamo scritto questa canzone per qualcosa successo 50 anni fa, ma Selmaè oggi, perché la lotta per la giustizia è oggi, ci sono più persone di colore nelle nostre prigioni oggi che schiavi nel 1850 e noi sappiamo che siete là e marciamo per voi".

Ma Selma parla anche drammaticamente a noi, all'Italia e all'Europa del 2015, provincializzate dalla crisi economica e bloccate dall'islamofobia. Occorre riflettere e tenere bene a mente questo passaggio dal discorso finale di King:
La nostra società ha distorto chi siamo. Dalla schiavitù alla ricostruzione, fino al precipizio sul quale ci troviamo adesso. Abbiamo visto potenti uomini bianchi governare il mondo e offrire a quei bianchi che sono poveri una menzogna crudele per placare la loro fame. E quando i bambini del povero bianco piangono perché i morsi della fame sono insopportabili, loro pensano di nutrirli con la stessa, vile, menzogna. Una menzogna che sussurra loro: Per quanto terribile sia la vostra vita, sentitevi grandi perché la vostra pelle, in fin dei conti, la vostra pelle bianca, vi rende superiori al popolo nero. Ma noi sappiamo la verità.

Selma, come anche Timbuktu di Sissako, altro film che esce sconfitto da questa notte degli Oscar (malgrado la recente investitura storica dei Césars) è un film non solo importante ma anche straordinariamente complesso e raffinato sul piano del racconto e della retorica filmica, rivelando la maturità espressiva di Ava DuVernay, 42enne losangelina, laureata alla UCLA in studi di anglistica e afroamericani e arrivata alla regia solo dopo una lunga carriera di marketing promoter. DuVernay, qui al suo terzo titolo, dopo I Will Follow (2011) e Middle of Nowhere (2012), ha già accumulato diversi riconoscimenti di prestigio, dal premio per la regia nel 2012 al Sundance alla nomination ai Golden Globe per la regia di Selma, che in entrambi i casi hanno rappresentato una prima volta importante per una regista afroamericana, anche se il black american cinema negli anni, dopo la pioniera Julie Dash, ha visto emergere altri talenti, da Gina Prince-Bythewood (La vita segreta delle api) a Dee Rees (Pariah), passando per Darnell Martin, Kasi Lemmons, Victoria Mahoney, Tanya Hamilton.

L'impronta autoriale di DuVernay, in questo film che rimane pur sempre una produzione indipendente, sia pure relativamente costosa (20 milioni di dollari), è ravvisabile in almeno due marche. La prima e più evidente è un segno antiretorico, uno sguardo che coglie di King e della marcia l'attenzione al dietro le quinte, alla dimensione intima e dimessa del reverendo, rappresentato come un uomo lacerato dai dubbi morali, sull'opportunità o meno di insistere in una marcia che aveva già causato lutti dolorosi alla comunità nera locale e indebolito dai contrasti con la moglie Coretta. Questa attenzione alla storia minore (nell'accezione di Deleuze e Guattari) si sostanzia nella cura con cui DuVernay tratta anche le figure minori, per esempio quella indimenticabile di Cager Lee, nonno 84enne che assiste all'uccisione a sangue freddo da parte di un agente del nipote Jimmie Lee Jackson, morto per difendere il suo diritto di voto. La seconda è rappresentata proprio dalla regia, una scrittura elegante ma antiretorica, che dispiega, all'interno di un controllo rigoroso della messinscena (attori, scene, costumi, luci) e della postproduzione (montaggio, musiche, effetti), alcune altissime impennate espressive. Penso in particolare a tre momenti: l'inizio, con quel primo dialogo intimo tra King e Coretta che prelude al discorso di investitura del Nobel, registrando su un piano metadiscorsivo le sue incertezze davanti allo specchio/schermo; l'esplosione, violenta e improvvisa, della chiesa che produce la morte terribile delle "four little girls", potente nella sua carica espressiva di astrazione; e la seconda marcia, costellata dalle incursioni criminali della polizia di contea sul terribile Edmund Pettus Bridge e giocata su un montaggio alternato serrato, un uso virtuosistico delle luci e dei dispositivi, una retorica visiva d'impatto ma a servizio della drammaturgia.

Il film è stato criticato da un membro dell'amministrazione Johnson, sul piano dell'accuratezza storica. In particolare, è stato rimproverato agli autori di avere deliberatamente rappresentato il presidente come ostile alla marcia e al progetto di legge, quando invece di fatto aveva un rapporto di piena sintonia con King. Non entriamo sul merito della vicenda. Vale la pena ricordare che si tratta, incredibilmente, del primo film di finzione che ricostruisce sia pure un periodo circoscritto dell'avventura umana e politica di King. Inoltre, opportunamente è stato osservato, in risposta a queste obiezioni (qui) che la sceneggiatura di Paul Webb evita volutamente cliché e scorciatoie consuete nei film hollywoodiani in cui sono presenti questioni sensibili dal punto di vista razziale, a partire dal tropo del Salvatore Bianco, che inevitabilmente svolge un contributo decisivo nel determinare la curva evolutiva del plot e assicurarne un happy ending.

Chiudo, ricordando che uno dei valori aggiunti assoluti del film a mio avviso è rappresentato dal cast e dalla direzione degli attori. Diversamente da altri film black degli ultimi anni, e mi riferisco soprattutto a quelli di Lee Daniels, in cui i ruoli sono talvolta attribuiti per rendere un omaggio a una personalità dello spettacolo, in questo caso il lavoro di casting è stato effettuato con una efficacia davvero rimarchevole, sia per le parti più rilevanti che per i ruoli di contorno e i cameo affidati a interpreti illustri (Tim Roth/Wallace, Oprah Winfrey/Anna Lee Cooper, Cuba Gooding Jr./Fred Gray). Su tutti, spiccano il 39enne black brit David Oyelowo, con alle spalle una formazione prestigiosa alla London Academy of Music and Dramatic Art e una nutrita carriera di ruoli di rilievo (tra gli ultimi, The Butler e Interstellar): il suo King è una figura estremamente complessa, rigorosa ma umbratile, eroica nel suo sollevarsi sulle sue stesse incertezze. Non meno toccante anche il ritratto di Coretta King, cui Carmen Ejogo, di origini nigeriano-scozzesi, anche lei con un più che discreto curriculum, regala un'umanità dolente, fiera e sfaccettata, che resiste e travalica il tropo della grande-donna-dietro-il-grande-uomo.

Leonardo De Franceschi

Selma - La strada per la libertà (Selma)
Regia: Ava DuVernay; sceneggiatura: Paul Webb; fotografia: Bradford Young; montaggio: Spencer Averick; suono: Greg Hedgepath; scenografie: Kim Jennings; costumi: Ruth E. Carter; interpreti: David Oyelowo, Carmen Ejogo, Jim France, Trinity Simone, Mikeria Howard, Jordan Christina Rice, Ebony Billups, Nadej k Bailey, Elijah Oliver, Oprah Winfrey; origine: USA, 2014; formato: DCP, 1:2,35, colore, Dolby Digital; durata: 128'; produzione: Christian Colson, Dede Gardner, Jeremy Kleiner, Oprah Winfrey, per Cloud Eight Films, Celador Films, Harpo Films, Pathé, Plan B Entertainment; distribuzione: Notorious Pictures.

Oscar 2015 a Glory per il film Selma

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Siamo davvero felici che l'Oscar 2015 per la Miglior Canzone Originale sia andato a "Glory" di John Legend e Common, brano utilizzato nel toccante film Selma della regista afroamericana Ava DuVernay.

In Italia il nome di John Legend non ha bisogno di molte presentazioni: il cantante si è addirittura sposato sul lago di Como e tornerà nel nostro Paese il prossimo 5 luglio per un'unica data al Lucca Summer Festival.

Quello di Common invece è meno conosciuto, nonostante in passato abbia vinto due Grammy con Erykah Badu e Kanye West: è un rapper di Chicago, classe 1972, che negli ultimi anni si è prestato al cinema e nel film Selma interpreta James Bevel, leader del movimento per i diritti civili e componente dei Freedom Singers.

Il discorso di John Legend e Common alla cerimonia degli Oscar, dopo aver ritirato il premio ed essersi esibiti in una performance commovente e travolgente della canzone, è stato uno dei momenti più forti e toccanti della serata, insieme a quello di Patricia Arquette sulla lotta per l'uguaglianza da parte delle donne.
I due artisti si sono soffermati sulle problematiche della discriminazione razziale, che è proprio l'argomento di cui tratta il film, facendo anche un ponte ideale fra i fatti di Selma e quelli di Ferguson di qualche mese fa:

"Nina Simone ha detto che il dovere di un artista è parlare del tempo in cui vive. E Selmaè attuale perché la lotta per la giustizia è attuale. Abbiamo scritto questa canzone per un film che si basa su eventi accaduti 50 anni fa, ma affermiamo che Selma è ora perché la lotta per la giustizia riguarda questo momento. E' noto che le battaglie per il diritto al voto sono state combattute 50 anni fa… ma ora la lotta per la libertà e la giustizia è reale. Viviamo nel Paese che più incarcera nel mondo. Ci sono più uomini di colore sotto controllo oggi che quando vigeva la schiavitù nel 1850. Alle persone che sono in marcia con la nostra canzone, vogliamo dire che siamo con loro”...

[Maria Coletti]

Sta per iniziare il Fespaco 2015

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Sta per iniziare la ventiquattresima edizione del Fespaco, il festival panafricano di cinema di Ouagadougou, che si svolgerà dal 28 febbraio al 7 marzo 2015 nella capitale del Burkina Faso.
Una nuova edizione che segna anche il passaggio di consegne come delegato generale del festival da Michel Ouedraogo, che ha diretto il festival per più di sette anni, a Ardiouma Soma, ex direttore della Cineteca di Ouagadougou e fondatore delle Journées Cinématographique de la Femme Africaine de l'image, nominato nuovo delegato generale dal Ministro della Cultura Jean Claude Dioma nel dicembre 2014.
In attesa di presentarvi il programma completo del Fespaco 2015, anticipiamo che il tema di questa edizione sarà“il cinema africano e la sua produzione e diffusione nell'era del digitale”.
A questo link il sito ufficiale del Fespaco: http://www.fespaco.bf/en/

[Maria Coletti]

I doc di Zalab alla Casa del Cinema

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Dal 12 febbraio al 1° aprile la Casa del Cinema ospita 6 documentari prodotti e distribuiti recentemente da ZaLab, collettivo di 5 film-makers e operatori sociali che realizza video partecipativi e documentari in contesti interculturali e in situazioni di marginalità geografica e sociale.

ZaLab è un'associazione per la produzione, distribuzione e promozione di documentari sociali e progetti culturali. E' un collettivo di cinque filmmakers e operatori sociali: Matteo Calore, Stefano Collizzolli, Maddalena Grechi, Andrea Segre, Sara Zavarise.Il video partecipativo è l'officina delle storie. I laboratori di ZaLab si rivolgono a chi vive al margine e normalmente non si esprime con il video, ma che grazie al percorso laboratoriale può diventare autore di racconti inediti sulla realtà.

Il documentario è il racconto della realtà. I documentari di ZaLab possono nascere da un laboratorio o dalle scelte individuali degli autori. Trasformano vite dimenticate in racconti per il cinema e la televisione.

Ecco il programma dettagliato dei prossimi appuntamenti:

Giovedi 26 FEBBRAIO ore 18
(in replica sabato 28 e domenica 1 marzo ore 18)
MAGARI LE COSE CAMBIANO
di Andrea Segre (2009 63') Neda è una signora romana di 50 anni, Una “romana de Roma”. E' cresciuta negli anni '60 nel cuore della capitale, a due passi dal Colosseo. Oggi però Neda non vive più nel suo rione. Sta a Ponte di Nona, Nel cuore delle “nuove centralità” alla periferia di Roma, 6 Km oltre il Grande Raccordo Anulare, lungo la Prenestina, oltre 20 km dal Colosseo. Sara, 18 anni, a Ponte di Nona invece ci è cresciuta. Figlia di una pugliese e di un egiziano, è una delle pochissime ragazze di Ponte di Nona che ha avuto la possibilità di studiare al liceo. Dal cuore della borgata periferica, Sara e Neda ci conducono in una sorta di inchiesta spontanea sulle dinamiche di interesse e di potere che segnano le vite quotidiane di migliaia di cittadini come loro: quartieri costruiti senza servizi, senza collegamenti viari, senza luoghi di socialità, senza nessuna manutenzione. Un racconto per non tacere sul disagio e la rabbia, che prova a seguire in silenzio le vite, i pensieri, le scoperte di persone meravigliose in difficili terre di periferia, ritratte nelle geometrie vive di un grande fotografo come Luca Bigazzi. “Magari le cose cambiano”è un film sulla dignità di uomini e soprattutto donne che hanno ancora il coraggio di non accettare ingiustizie sociali e guerre tra poveri.

Giovedi 5 MARZO ORE 18
(in replica sabato 7 e domenica 8 ore 18)
I NOSTRI ANNI MIGLIORI
di Matteo Calore, Stefano Collizzolli (2011, 45') Neda è una signora romana di 50 anni, Una “romana de Roma”. E' cresciuta negli anni '60 nel cuore della capitale, a due passi dal Colosseo. Oggi però Neda non vive più nel suo rione. Sta a Ponte di Nona, Nel cuore delle “nuove centralità” alla periferia di Roma, 6 Km oltre il Grande Raccordo Anulare, lungo la Prenestina, oltre 20 km dal Colosseo. Sara, 18 anni, a Ponte di Nona invece ci è cresciuta. Figlia di una pugliese e di un egiziano, è una delle pochissime ragazze di Ponte di Nona che ha avuto la possibilità di studiare al liceo. Dal cuore della borgata periferica, Sara e Neda ci conducono in una sorta di inchiesta spontanea sulle dinamiche di interesse e di potere che segnano le vite quotidiane di migliaia di cittadini come loro: quartieri costruiti senza servizi, senza collegamenti viari, senza luoghi di socialità, senza nessuna manutenzione. Un racconto per non tacere sul disagio e la rabbia, che prova a seguire in silenzio le vite, i pensieri, le scoperte di persone meravigliose in difficili terre di periferia, ritratte nelle geometrie vive di un grande fotografo come Luca Bigazzi. “Magari le cose cambiano”è un film sulla dignità di uomini e soprattutto donne che hanno ancora il coraggio di non accettare ingiustizie sociali e guerre tra poveri.

Giovedi 19 MARZO ORE 18
(in replica sabato 21 e domenica 22 ore 18)
IL SANGUE VERDE
di Andrea Segre (2010, 57')
Neda è una signora romana di 50 anni, Una “romana de Roma”. E' cresciuta negli anni '60 nel cuore della capitale, a due passi dal Colosseo. Oggi però Neda non vive più nel suo rione. Sta a Ponte di Nona, Nel cuore delle “nuove centralità” alla periferia di Roma, 6 Km oltre il Grande Raccordo Anulare, lungo la Prenestina, oltre 20 km dal Colosseo. Sara, 18 anni, a Ponte di Nona invece ci è cresciuta. Figlia di una pugliese e di un egiziano, è una delle pochissime ragazze di Ponte di Nona che ha avuto la possibilità di studiare al liceo. Dal cuore della borgata periferica, Sara e Neda ci conducono in una sorta di inchiesta spontanea sulle dinamiche di interesse e di potere che segnano le vite quotidiane di migliaia di cittadini come loro: quartieri costruiti senza servizi, senza collegamenti viari, senza luoghi di socialità, senza nessuna manutenzione. Un racconto per non tacere sul disagio e la rabbia, che prova a seguire in silenzio le vite, i pensieri, le scoperte di persone meravigliose in difficili terre di periferia, ritratte nelle geometrie vive di un grande fotografo come Luca Bigazzi. “Magari le cose cambiano”è un film sulla dignità di uomini e soprattutto donne che hanno ancora il coraggio di non accettare ingiustizie sociali e guerre tra poveri.

Mercoledi 1 aprile ORE 18
(in replica sabato 4 e domenica 5 ore 18)
MARE CHIUSO
di Stefano Liberti, Andrea Segre (2012, 60') Tra maggio 2009 e settembre 2010 oltre duemila migranti africani vennero intercettati nelle acque del Mediterraneo e respinti in Libia dalla Marina e dalla Polizia italiana; in seguito agli accordi tra Gheddafi e Berlusconi, infatti, le barche dei migranti venivano sistematicamente ricondotte in territorio libico, dove i richiedenti asilo non godevano di alcun diritto e la polizia esercitava indisturbata varie forme di abusi e di violenze. Non si è mai potuto sapere ciò che realmente succedeva ai migranti durante i respingimenti, perché nessun giornalista era ammesso sulle navi e perché tutti i testimoni furono poi destinati alla detenzione in Libia. Nel marzo 2011 con lo scoppio della guerra in Libia, tutto è cambiato. Migliaia di migranti africani sono scappati e tra questi anche rifugiati etiopi, eritrei e somali che erano stati precedentemente vittime dei respingimenti italiani e che si sono rifugiati nel campo UNHCR di Shousha in Tunisia, dove li abbiamo incontrati. Nel documentario sono loro, infatti, a raccontare in prima persona cosa vuol dire essere respinti; sono racconti di grande dolore e dignità, ricostruiti con precisione e consapevolezza. Sono quelle testimonianze dirette che ancora mancavano e che mettono in luce le violenze e le violazioni commesse dall'Italia ai danni di persone indifese, innocenti e in cerca di protezione. Una strategia politica che ha purtroppo goduto di un grande consenso nell'opinione pubblica italiana, ma per la quale l'Italia è stata recentemente condannata dalla Corte Europea per i Diritti Umani in seguito ad un processo storico il cui svolgimento fa da cornice alle storie narrate nel documentario.

[Maria Coletti]

AMM con UNARDOC.IT contro il razzismo

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All'interno delle iniziative programmate per la XI edizione della Settimana d'azione contro il razzismo, l'UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) lancia unardoc.it, la piattaforma web per la visione di film documentari in streaming selezionati per promuovere una cultura dei diritti e delle pari opportunità.
Grazie alla collaborazione con Archivio delle Memorie Migranti e al lavoro e alla generosità di registi e produttori che hanno messo a disposizione le loro opere, durante la Settimana, dal 16 al 22 marzo, sarà possibile vedere un documentario al giorno dedicato ai temi della lotta alla xenofobia.
Questo sarà l'ordine di programmazione: L'infedele di Angelo Loy (16 marzo), Mare chiuso di Andrea Segre e Stefano Liberti (17 marzo), Io, la mia famiglia rom e Woody Allen di Laura Halilovic (18 marzo), Va' Pensiero. Storie ambulanti di Dagmawi Ymer (19 marzo), Mineo Housing di Cinzia Castanìa (20 marzo), Container 158 di Stefano Liberti ed Enrico Parenti (21 marzo), Il futuro è troppo grande di Giusy Buccheri e Michele Citoni (22 marzo).

[Maria Coletti]

Premio Mutti-AMM per il cinema migrante

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Il nuovo bando, aperto fino al 30 giugno 2015, mette a disposizione 15.000 euro per l'effettiva realizzazione del progetto vincitore.

Per un/una cineasta di origine migrante, finanziare le proprie opere in Italia è un'impresa molto difficile, quasi impossibile: dal 2008 il Premio Mutti-AMM fornisce un contributo per colmare questo vuoto sostenendo l'opera di cineasti provenienti da Asia, Africa, Este Europa e Balcani, Centro e Sud America, Medio Oriente, residenti in Italia da almeno 12 mesi.

Il Premio è organizzato da Associazione Amici di Giana, Archivio delle Memorie Migranti, Cineteca di Bologna e Human Rights Nights.

Tra i film premiati e realizzati grazie alle passate edizioni del Premio Mutti-AMM, ricordiamo: Ti ricordi di Adil ? di Mohamed Zinnedaine (2008), 18 Ius Soli di Fred Kuwornu (2009) e Va' pensiero. Storie ambulanti di Dagmawi Yimer (2012).

Per info sul bando:
http://www.cinetecadibologna.it/Bandi/premio_mutti2014

[Maria Coletti]


Un'altra storia del 1968, tra cinema e Africa. Conversazione con Mino Argentieri

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Nell'autunno caldo delle occupazioni studentesche e delle manifestazioni operaie esce nelle librerie Cinema e Africa nera per un piccolo editore romano, vicino agli ambienti della sinistra extraparlamentare. A firmare questa breve ma infuocata riflessione sull'immagine dei neri nel cinema italiano e internazionale e sugli inizi del cinema africano è una giovane soprano nigeriana col vizio del cinema. Joy Nwosu, che viene da una formazione accademica come pianista e cantante d'opera a Santa Cecilia, scopre tra Cinecittà e la Pro-Deo un "secondo amore" per il cinema, trova nel critico e cineasta Giovanni Vento prima il regista del suo primo e unico ruolo da protagonista nello sfortunato esordio Il nero (1966) e poi un puntuale editor per Cinema e Africa nera (1968), che ad ottobre 2014 è uscito in una nuova edizione critica per Aracne editrice, con una introduzione di Leonardo De Franceschi e una nuova, doppia intervista, all'autrice e al critico Mino Argentieri, allora autore della prefazione e amico personale di Giovanni Vento. Ai lettori di Cinemafrica abbiamo voluto offrire in esclusiva la versione integrale di questa conversazione, concessaci da una delle figure chiave della critica militante italiana, negli anni Sessanta e Settanta.

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“Cinema e Africa nera”è stato pubblicato per Tindalo nel novembre 1968. Si ricorda in quali circostanze è stato contattato dall'autrice, Joy Nwosu? Secondo Nwosu, è stato Giovanni Vento a fare da tramite, lui che era stato tra i fondatori di “Cinemasessanta”…

L'ideatore, il coordinatore, il promotore del libro è stato Giovanni Vento. Senza di lui forse non sarebbe successo nulla.

Aveva un interesse specifico per la questione dell'immagine dei neri nel cinema internazionale e nei confronti delle nascenti cinematografie africane?
Era consapevole del fatto che il libro rappresenta un contributo piuttosto avanzato rispetto all'orizzonte degli studi sul cinema a livello internazionale? Nel 1968, sul tema erano stati pubblicati pochissimi testi anche in inglese o in francese sul tema, tra cui il fondamentale “The Negro in Film” scritto da Peter Noble nel 1946 e tradotto nel 1956 a cura e un aggiornamento di Lorenzo Quaglietti, e “The Negro in Hollywood Films” di V. J. Jerome, pubblicato nel 1950 e poco noto in Italia. Senza contare l'assoluta assenza di contributi sul cinema africano, se si eccettuano alcuni saggi di Romano Calisi.

Stava affiorando un interesse per una realtà nuova che scuoteva l'Asia, l'Africa e l'America Latina. Era logico che la nostra attenzione fosse attirata da un mondo in via di rinascere e che la riflessione sul cinema non fosse estranea alle attese politiche, anche se non poche di queste si riveleranno deludenti. Intanto, da parte nostra c'era un desiderio di conoscenza affrancata dai clichés colonialisti. Ma c'era anche l'esigenza di ripensare il modo in cui il cinema americano ed europeo avevano sino ad allora raffigurato i neri nell'originario contesto naturale e nella civiltà urbana. Qualcosa stava cambiando dopo l'orgia di luoghi comuni, caricature, simbolizzazioni di marca razzista: inizia a riaffiorare una tendenza paternalistica e ambigua nello sguardo dei bianchi, sotto l'influenza di una paura che consigliava di abbassare i toni e di puntare su un'immagine dei neri che perpetuava il punto di vista dei bianchi, magari più ammorbidito, meno infantile, elastico e tuttavia mirante a far accettare l'evoluzione dei processi storici, nella misura in cui le figure dei neri, nei film, fossero compatibili con i codici di comportamento tipici di uno stato di integrazione. Non eravamo insensibili alle ricerche di Rouch e un vero esploratore è stato Romano Calisi, uno studioso oggi dimenticato. Avete fatto bene a riesumarlo dal dimenticatoio.

Nella stagione 1965-66, uno degli exploit assoluti fu “Africa addio” di Jacopetti e Prosperi, risultato sesto in classifica con un incasso di 1.335.070.000 lire (oggi stimabile a circa 12 milioni di euro). Se consideriamo che il prezzo medio del biglietto allora era di circa 260 lire, se ne ricava che il film fu visto da oltre 5 milioni di spettatori. “La battaglia di Algeri”, distribuito nello stesso anno, nonostante il Leone d'Oro, incassò 762.916.000 lire, poco più della metà. È noto che la critica ufficiale, sia quella di sinistra che quella cattolica, fu sostanzialmente compatta nello stroncare il filone dei mondo movies, e nel 1968 lei nell'introduzione parla di Jacopetti come «alfiere e depositario esemplare» di un «livore fascista e viscerale» che rappresenta l'anima più oscura del «germe razzista» diffuso nel cinema italiano e internazionale nei confronti dell'Africa e degli africani. Ritiene che il dibattito pubblico manifestasse nel suo insieme un atteggiamento di simpatia nei confronti della nuova Africa post-indipendenza, oppure il retaggio del fascismo e del colonialismo confinavano questa simpatia a una ristretta nicchia di pubblico esplicitamente di sinistra e terzomondista? E che cosa pensa del periodico riemergere del tentativo da parte di una critica giovane, che si definisce postideologica, di rivalutare la figura e il cinema di Jacopetti?

Il cinema di Jacopetti era semplicemente ignobile, solleticava i più bassi istinti, era un campionario di sadismo. Carlo Gregoretti, redattore dell'Espresso, raccontò di essere stato testimone di un episodio raccapricciante. Il regista aveva concordato l'uccisione di poveri diavoli per filmare la scena, evitando qualsiasi finzione. Roba disgustosa. Ma al pubblico piaceva e gli incassi si gonfiavano. Il fenomeno avrebbe dovuto interessare gli analisti della psicologia del profondo, comunque segnalava l'emersione di un imbarbarimento culturale e di mutamenti che segneranno la vita emotiva degli italiani, anche negli anni successivi, e nell'ambito di generi diversi da quello che Jacopetti aveva praticato. Oltre la malata morbosità di uno pseudo documentarista, c'era in Jacopetti la nostalgia e il rimpianto per un'Africa in cui i bianchi contavano non più come nei vecchi tempi del colonialismo trionfante. La convinzione di superiorità, che aveva scaldato gli animi di mezza Europa e degli Stati Uniti, era stata incrinata e Jacopetti non mandava giù il boccone amaro. Si rivolgeva all'Italia squallida che da Crispi a Giolitti a Mussolini aveva coltivato un razzismo apparentemente bonario alla stregua delle altre colonie che, nel XIX secolo, si erano impadronite di pezzi interi dell'Africa e dell'Asia in una spartizione famelica e feroce, lorda di sangue. Nel cinema mondiale c'è stata troppa censura e troppa servitù nei riguardi del potere e la scuola e la letteratura esotica e avventurosa, anche i fumetti, hanno contribuito massicciamente a diffondere la cultura dei conquistatori e dei “portatori di civiltà”, chiese e religioni incluse. Se si esclude l'anticolonialismo del movimento socialista, comunista e anarchico, c'è stata una generale concordanza nella difesa del dominio bianco. Noi, in Italia, abbiamo avuto la particolarità di presentarci come se fossimo e fossimo stati i più generosi, i più umani. È in Africa, in Eritrea, in Libia, in Etiopia, in Somalia che nasce l'”italiano brava gente”, una menzogna colossale, che è sempre valsa ad evitare seri esami di coscienza, falsificando la nostra autobiografia. Siamo stati duri, abbiamo negato il diritto degli altri alla propria identità e libertà, autoingannandoci dietro la melassa di Faccetta nera e ammirando le nudità delle donne africane, le uniche ammesse dai censori nei film e nei documentari.
Che tutto questo non ponga domande alla cosiddetta “giovane critica”, non mi sorprende. Le insensatezze, l'ignoranza vanno per la maggiore e la cinefilia spesso si associa a uno sguarnito bagaglio culturale, a un'autoreferenzialità scriteriata.

Nel libro di Joy Nwosu si fa riferimento a una serie di stereotipi circolanti sull'immagine dei neri, codificati da Hollywood già ai tempi di “Nascita di una nazione” ma fatti propri anche dal cinema coloniale ed esotico internazionale. Ritiene che la visione negativa e viziata da pregiudizi nei confronti dell'Africa e degli africani nel cinema italiano fosse da attribuire perlopiù all'eredità della propaganda coloniale liberale prima e fascista poi, riflettendo una tradizione razzista specificamente italiana, o invece veicolasse stereotipi e luoghi comuni patrimonio di tutto l'Occidente colonialista e imperialista?

Imputare al fascismo la colpa dell'attitudine razzista della maggioranza degli italiani è corretto in quanto il regime dittatoriale ha consolidato una tradizione, un retaggio, una pedagogia ereditata. Nel confronto, però, le democrazie liberali non hanno avuto una condotta migliore. Vale la pena di osservare nondimeno che rispetto ad altri governi, quello fascista, nel 1936, ha imposto una legislazione razzista in nome della “difesa della razza”, un concentrato di discriminazioni ed esclusioni che in Italia non avevano avuto pari e riguardavano, fra l'altro, i rapporti fra africani e italiani, i matrimoni misti (proibiti), il meticciato. Di questa vergogna non si parla mai, lasciando credere che le sole leggi razziali approvate nel nostro paese siano state unicamente quelle del 1938 concernenti gli ebrei. C'era stato un precedente grave, gravissimo e significativo, ma su questa vergogna si sorvola, è ignorata al livello della cultura di massa che – lo sappiamo bene –è decisiva, insieme alla scuola, nella formazione di pregiudizi e nell'irradiazione di stereotipi, modelli di comportamento, visioni del mondo. A prescindere dal patrimonio filmico, abbiamo anche una narrativa priva di valori letterari e stilistici che ha provato a dipingere l'Africa sotto il profilo più convenzionale e stupido. Non credo che abbia avuto una larga influenza poiché in Italia i libri li leggevano quattro gatti. Ma film, documentari, fotografie hanno esercitato il loro ruolo, hanno avuto un peso. Uno scrittore che forse si è salvato è Emilio Salgari, un assiduo frequentatore di ambienti esotici, ma schierato dalla parte degli oppressi a cui andava la sua simpatia.

Col neorealismo e l'apparizione della figura del militare afroamericano nel neorealismo, il tema del razzismo e il dibattito sulla questione delle relazioni interrazziali che era centrale nell'America degli anni Cinquanta e Sessanta, è emerso in qualche modo anche in Italia, anche grazie alla presenza attestata già dall'inizio della stagione di Hollywood sul Tevere, di decine di attori e attrici afroamericani ingaggiati perlopiù in film di genere, in costume o di ambientazione esotica. Tra i critici di scuola neorealista come lei, Micciché, Lizzani, si aveva la consapevolezza del valore politico dei messaggi antirazzisti contenuti in film come “Paisà” o “Senza pietà” di Lattuada?

I critici identificatisi nel neorealismo hanno colto principalmente il messaggio umano trasmesso da film come Paisà e Senza pietà. Lasciavano dubbiosi, invece, i prodotti a taglio popolare, in cui comparivano i neri. Siamo stati attenti ai primi film americani postbellici in cui il tema del colore della pelle irrompeva con la forza delle situazioni più drammatiche e laceranti. Ma c'era dell'altro a stuzzicarci: libri come Ragazzo negro di Richard Wright, il bellissimo romanzo di Ennio Flaiano Tempo di uccidere, il jazz, gli spirituals, Mulatto di Langston Hughes, I verdi pascoli, i labour songs. Da un articolo apparso su Cinema nuovo avevamo appreso che in America è esistito, fuori dalla cinta di Hollywood, un cinema “all negro” di cui non siamo mai riusciti a reperire le tracce. Persino rassegne come quelle di Pordenone e Bologna non si sono messe su quelle piste. Ma sto girando ancora attorno agli Stati Uniti e non dimenticherei Faulkner tra gli scrittori che si sono provati a descrivere la condizione dei neri negli stati del Sud. Diciamo come stavano le cose effettivamente. Nel dopoguerra, e successivamente, la questione dei diritti dei neri era stata percepita come prettamente e tipicamente americana. Quanto all'Africa, negli anni Quaranta, sembrava lontana. I razzisti di casa nostra non la immaginavano in termini di un pericolo. Era distante e i vincitori della seconda guerra mondiale avevano sciolto l'Impero. Sarebbe stato indispensabile fare luce sulla memoria storica criticamente, smentendo le menzogne e le agiografie di oltre mezzo secolo. Il che è avvenuto nei piani alti delle ricerche storiografiche improntate a rigore scientifico e documentale, ma avendo alle spalle rotocalchi e televisione ancorati a paradigmi dell'altro ieri. È una frattura di cui bisogna sistematicamente tener conto, perché l'opinione pubblica, gli umori, il senso comune non li tengono a battesimo le indagini storiografiche serie. Non c'è pensiero problematico in notevole parte della cultura di massa.
Adesso, sul tavolo ci sono altre carte. L'Africa è in casa nostra, la schiuma della terra arriva a bordo dei barconi della disperazione e della fame, il Mediterraneo uccide migliaia di uomini, donne e bambini in cerca di lavoro e le terre da cui provengono sono un inferno. Non c'è solo la miseria, l'indigenza ma una ferita aperta dai sanguinosi attriti tribali, etnici e politici. La psicosi, se non l'ostilità dichiarata, alimentano l'insofferenza e l'intolleranza. L'Africa è ritenuta sinonimo di caos, anche se la prospettiva di una società retta da un pluralismo culturale e religioso si sta aprendo un varco. A fatica, non dimentichiamolo. Dalle viscere dell'assetto sociale risalgono in superficie brutte bestie. Nel 1961, Ansano Giannarelli realizzò un cortometraggio, Africa chiama, a cui collaborammo io e Ivano Cipriani in veste di sceneggiatori. Denunciavamo le manipolazioni culturali attraverso cui era stata mistificata la rappresentazione dei neri. E demmo la parola ad alcuni studenti africani che avevano ricevuto dal ministero degli esteri borse di studio e vivevano a Roma. Questi privilegiati appartenevano chiaramente a strati sociali non bassi, eppure nel soggiorno romano avevano colto manifestazioni di razzismo. Figuriamoci oggi, all'arrivo di migranti “brutti, sporchi” e talvolta “cattivi”! Inutile nascondersi dietro un dito: a Pantelleria, la preoccupazione principale è per il minor richiamo che ha, per il turismo, l'isola.

_ Nella sua introduzione lei si chiede: «Fino a che punto è possibile costruire una cultura africana o negra affatto staccata dal pensiero rivoluzionario dell'Occidente e dall'esperienza rivoluzionaria universale in un mondo che, di giorno in giorno, accorcia le distanze tra paesi e continenti?». Sembra, in sostanza, un po' come aveva fatto Sartre nella celebre introduzione “Orfeo nero” alla raccolta di Senghor, considerare questo momento di rivendicazione da parte degli autori e dei critici afroamericani o di origine africana della necessità di un cinema e di una critica autentici, militanti e tesi a rovesciare gli stereotipi del passato solo come una tappa all'interno di un processo di unificazione di tutti i gruppi subalterni nella lotta contro una cultura e soprattutto un potere riconducibile alla borghesia capitalista internazionale. E' esatta questa mia lettura? Non le sembra che la rivendicazione di una sostanziale preminenza delle logiche di classe su quelle di razza su quelle che erano allora le ragioni della sofferenza dei popoli postcoloniali e della comunità afroamericana rispecchiasse una generale sottovalutazione da parte della sinistra istituzionale circa la rilevanza delle questioni di razza nei movimenti anticoloniali e terzomondisti del periodo?

La sinistra comunista e socialista ha commesso un errore di valutazione sull'Italia e sugli italiani e sulle culture che sono state, e continuano a essere, il loro nutrimento in forme cangianti ma non sino alla radice. Lo sbaglio ci riconduce alla caduta del fascismo, prima al luglio 1943 e poi all'aprile 1945. Una transizione che ha visto moltitudini scrollarsi di dosso il proprio consenso alla dittatura, soltanto perché la guerra era stata vinta dagli Alleati, americani, inglesi, russi, perciò sarebbe stato vano e assurdo arroccarsi e battersi testardamente. Certo, c'è stata la Resistenza, uno dei momenti fulgidi dei nostri trascorsi. Ma – qui è stato lo sbaglio – le sinistre non hanno afferrato il carattere relativamente minoritario di quel movimento, peraltro insidiato da contrasti intestini concernenti il futuro della nazione, il suo rinnovamento, il tipo di democrazia da costruire. Amplificando il mito della Resistenza, le sinistre hanno chiuso gli occhi su una mancata presa di coscienza a favore di un salto sul carro di chi aveva sconfitto il nazifascismo. Un crescendo trasformistico di ragguardevoli proporzioni e spia di due connotati: 1) la inevitabile lentezza che hanno le trasformazioni culturali e sociologiche nei confronti delle modifiche istituzionali; 2) la difficoltà strutturale di misurarsi con i corredi delle culture in cui si riconoscono le classi dominanti che controllano l'organizzazione della cultura, e svolgono una funzione egemonica. La prova del nove l'ha fornita il referendum “repubblica o monarchia”, in cui i repubblicani hanno superato per il rotto della cuffia la contesa. Eppure, la monarchia sabauda si era macchiata di complicità mostruose con il fascismo. C'è stato, e sussiste ancora, un annebbiamento che ha impedito, e impedisce, a quel che resta della Sinistra, di intendere che l'Italia è di prevalente inclinazione conservatrice, se non reazionaria. Basterebbe comparare gli esiti elettorali dal 1919 al 2000 inoltrato per accorgersi che i due terzi degli elettori, in circostanze svariate, si sono sempre pronunciati contro ogni progetto di società socialista o di società a democrazia avanzata. Non sono propenso a evocare il fantasma del fascismo, conscio come sono che la Storia non si ripete mai nelle stesse modalità al di là delle analogie epidermiche e facili. Sono però persuaso che le culture, che hanno fecondato e puntellato il fascismo abbiano depositato semi che non si estirpano e non si estinguono sbrigativamente. Il pregiudizio razzista proviene da questi rami a cui sono legati non solo gli Interlandi e i teorici della “stirpe italica” e delle razze ma anche la stessa Chiesa cattolica, l'Italia liberale postunitaria, alcune degenerazioni del positivismo. È inoltre opportuno non sottovalutare il carattere sincretico della ideologia fascista non condensabile in un semplicistico e riduttivo schizzo.

Col senno di poi, a distanza di oltre quarant'anni, che cosa ritiene più interessante, innovativo e magari attuale in “Cinema e Africa nera”?

Il saggio, ovviamente, ha una sua datazione, annuncia una svolta, propone un'angolazione inedita: quella dei neri che rivendicano la loro autonomia, la loro storia, le loro sofferenze, i prezzi pagati lungo il cammino verso la libertà. Un popolo che vuole raccontarsi e non essere più raccontato dai bianchi, finanche dagli “amici”. Il taglio è estremo e giusto, dischiude spiragli, nuovi punti di osservazione e di disamina. A distanza di un quarantennio, la problematica non è priva di attualità nella sua sostanza.
Ma per filtrarne il succo è indispensabile storicizzare la situazione, situarla in una stagione in cui il New American Cinema era stato un entusiasmante exploit e gli africani, ovunque combattessero, sognavano di creare una propria cinematografia, anche se avevano studiato a Parigi, a Roma o a Mosca. Nel 1968, in Italia, si era in pochi ad avere una sensibilità per le espressioni di rivolta che serpeggiavano nel cosiddetto “Terzo mondo”e non solo nelle aree africane e asiatiche. Joy Nwosu ha avuto il merito impagabile di lanciare un sasso nella piccionaia della sinistra culturale italiana e oltrepassare la linea della saggistica che ha avuto in Peter Noble un analista e uno storico preciso e acuto. L'autrice è tagliente nel giudizio, nostra fiducia in una produzione indipendente, magari povera ma coraggiosa e inventiva, artigianale, affrancata dai tabù commerciali, favorita dal progresso tecnico. E in lei è sacrosanta la voglia di aprire un registro inedito: che siano i neri d'Africa e d'America a materializzare le proprie fantasie e a documentare la loro quotidianità. Perché non essere d'accordo, non sostenere questa ipotesi di lavoro? Zavattini l'aveva perorata per gli italiani, profetizzando addirittura un cinema affidato alle mani dei non professionisti, un linguaggio da socializzare come lo era stata la scrittura, esente da costrizioni, non imprigionato dall'asfissia dei metraggi, della durata, dei luoghi deputati alla fruizione, dai confini del formati e dei generi. Dunque, c'era una medesima lunghezza di onde ed era coerente con i nostri programmi che Vento e io, che eravamo con Tommaso Chiaretti, Lorenzo Quaglietti e Spartaco Cilento tra i fondatori di Cinemasessanta, aiutassimo questo libro a essere concretizzato.

Rileggendo la sua introduzione, ci sono dei passaggi che l'hanno colpita particolarmente, in positivo o in negativo, che rivendica come importanti o che invece le piacerebbe rivedere?

Rileggendo la mia prefazione, ho un rammarico: non aver più seguito le vicende del cinema africano. Il motivo? Mi sono convertito a un principio: la critica cinematografica si specializzi e non svolazzi da un tetto all'altro, a maggior ragione – questa regola – quando ci si avvicini a prodotti ed espressioni scarsamente frequentati in Europa, lontani dalle nostre lingue e dai nostri percorsi storici e culturali. Esaminare un film richiede una compenetrazione nell'humus culturale da cui scaturisce. L'approccio veloce e giornalistico serve esclusivamente a orientare il pubblico su quel che passa il convento del mercato o, nel migliore dei casi (sono rari, ormai rarissimi), partecipare a una battaglia pubblicistica per svecchiarlo il cinema, togliergli il piombo dai piedi, vivacizzarlo e iniettargli fermenti nuovi.
Della prefazione che ho scritto mi è caro l'auspicio di un intreccio delle culture rivoluzionarie occidentali e africane, un traguardo tra i più ardui, vagheggiabile nel Sessantotto, ma faticoso da tagliare.
Il cinema italiano non si è tirato indietro, non ha minimamente assecondato i rigurgiti, la visceralità a cui la Lega Nord (ma non ne farei un capro espiatorio) ha prestato una legittimità politica (insieme ad A.N. e a Forza Italia) e una rappresentanza parlamentare e governativa, un supporto legislativo. Film come Pummarò di Michele Placido (1990) e Lettere dal Sahara di Vittorio De Seta (2006) si sono indirizzati nell'opposta direzione, mettendo a frutto gli insegnamenti del neorealismo. La televisione pubblica, non estranea alla predicazione ecumenica della Chiesa cattolica postconciliare e all'umanitarismo sociale di una Sinistra essenzialmente socialdemocratica, ha avuto una funzione di contrappeso alle propensioni retrive ramificate nel ventre del nostro popolo. Tuttavia, il suo compito obiettivamente educativo e critico-conoscitivo, non si può dire che sia stato e sia adeguato alle oggettiva spinosità dei problemi suscitati dalle disordinate ondate migratorie in economie di mercato improntate alla sovranità del profitto e dello sfruttamento.
Nell'arco di un quarantennio, il panorama mondiale è stato sovvertito e le promesse dei paesi a nuova indipendenza di rado sono state mantenute. La sensazione di un terremoto apocalittico si sta impossessando di noi. Non è frutto di menti alterate e l'elezione di un nero alla presidenza degli Stati Uniti, pur non essendo più una trovata da romanzo di fantapolitica, soddisfa la borghesia nera americana, non la popolazione, bianca o nera, che soffre a causa delle crescenti ineguaglianze. La confusione è moltiplicata dall'insorgere delle infatuazioni religiose, e dall'oscurantismo in Medio Oriente e in Africa con minaccia di allargamento agli sterminati territori asiatici. Stiamo assistendo a una tribalizzazione transnazionale, al dilagare di un fanatismo furibondo, al dispiegarsi di un'irrazionalità mostruosa e l'oasi europea cova germi pericolosi, dissidi che possono esplodere, una convivenza spigolosa, una coabitazione scricchiolante. Come disse un tale illustre: non sono pessimista, pessime sono le cose. Ma da qui si deve ricominciare, anche se l'impresa presuppone ingegno, saldezza etica, pazienza, immaginazione. Lo aveva sentenziato Piero Gobetti: l'impossibilità di una rivoluzione, non ne cancella la necessità.

Alcuni anni prima dell'uscita di “Cinema e Africa nera”, Joy Nwosu ha interpretato uno dei ruoli da protagonista di un film indipendente, “Il nero”, diretto da Giovanni Vento. Il nero, che raccontava le vicende di alcuni giovanotti “figli della Madonna” a Napoli, nati perlopiù tra il 1945 e il 1946 dalla relazione tra donne del luogo e militari afroamericani, fu presentato con un successo in alcuni festival italiani e internazionali ma non fu mai distribuito commercialmente nonostante la campagna sostenuta da personaggi come Lizzani e testate come “Cinema nuovo” perché l'Italnoleggio se ne facesse carico. Che cosa ricorda di questo film e del suo autore?

Giovanni Vento. Il suo amore per il cinema lo ha riversato anzitutto nella ricerca. Suo e di Massimo Mida è il primo ampio saggio su Cinema e resistenza, che abbraccia film editi in varie nazionalità, da Hollywood alla Gran Bretagna, dall'Unione sovietica all'Olanda, dalla Danimarca alla Cecoslovacchia e via catalogando e registrando, Italia compresa e Germania dell'Ovest e dell'Est. Ricordo la compilazione di una filmografia del cinema italiano dagli albori del sonoro al decennio Cinquanta su cui lavorammo insieme e che fu pubblicata, in appendice, alla seconda edizione (Parenti) di Il cinema italiano di Carlo Lizzani. Rammento anche una preziosa e ragionata esplorazione dell'accoglienza della critica ai film sovietici presentati a cavallo del tramonto del “muto”, in pieno fascismo. Ricordo numerosi interventi critici e polemici su periodici e l'entusiasmo con cui partecipò all'avventura di Cinemasessanta nel 1959. Fu lui a procurare un editore fiorentino, Landi, che però dovemmo subito abbandonare giacché pretendeva di vincolarci alla sua approvazione sui contenuti della rivista. Poi Giovanni si era trasferito sul set di Il processo di Verona in qualità di aiuto regista, al fianco di Lizzani. Forse ci fu qualche altra prestazione simile, non ne sono sicuro ma è probabile. Infine, la regia di Il nero, un film sconosciuto agli spettatori e alla critica. Giovanni me lo mostrò in “visione privata” e io, lodandolo, lo recensii su Rinascita. La sua morte improvvisa, provocata da un orripilante incidente (caduto da una scala, era stato infilzato da un puntuto congegno di ferro), ha privato il film di chi avrebbe fatto l'impossibile per portarlo alla luce del sole.

Il film esibiva dei modelli cinematografici piuttosto espliciti al “nuovo cinema” italiano di Bertolucci e Bellocchio ma anche a Godard e ancor più al Cassavetes di Ombre. Ritiene che il film meriterebbe una riscoperta e troverebbe un interesse nell'Italia di oggi o rimane troppo legato al contesto degli anni Sessanta?

Non conosco il documentario di Vento Africa in casa, ma ho rivisto recentemente Il nero in un DVD pessimo, provvisto di una colonna sonora inascoltabile e ciò malgrado, il disco è stato sufficiente a risvegliare le emozioni della prima volta. A ben ragionare, la particolarità del film sta nel trattare non tanto di razzismo quanto di giovani, anche se alcuni di essi sono di pelle scura, figli della guerra, appunto i “figli della Madonna”, come a Napoli li definiva il popolino. Trascorso un quarantennio, ho nuovamente ammirato lo stile di Giovanni, la padronanza nella guida degli attori, il dominio dei piani ravvicinati, la nervosa mobilità della cinepresa, la mescolanza degli interpreti con i passanti, le riprese a sorpresa, “rubate”, la secchezza e la velocità del montaggio, l'uso del chiaroscuro in una fotografia realistica, scevra di effetti arabescati, il primato dell'immagine e dei volti. Cinema, cinema all'ennesima potenza. Aggiungerei: moduli formali divenuti consuetudine, ma nel 1969 questo sfoggio di talento visivo non era merce corrente. Vento aveva assimilato la lezione del New American Cinema e l'aveva trasposta in un tessuto nostrano, reinventandola nella cornice di una Napoli non dialettale, non bozzettistica, non di maniera, non sfiorata dal colore locale. La sua opera-prima, il suo esordio sono sorretti da una sicurezza e maturità invidiabili, non inferiori a quella dei più festeggiati o onorati autori giunti alla ribalta negli anni Sessanta. L'ironia della sorte ha voluto che un regista così dotato scomparisse prematuramente e il suo film fosse inghiottito dalla cancellazione di ogni traccia. Un'ingiustizia che reclama un risarcimento.

Roma, luglio 2014

Il Fespaco 2015 sorride al Marocco

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E così anche la 24a edizione dello storico Festival Panafricain du Cinéma de Ouagadougou, Burkina Faso, ha chiuso i battenti, con la consegna dei premi. E' stata la prima edizione del post-Compaoré, dell'apertura del concorso al digitale e ai registi della diaspora, delle polemiche intorno alla partecipazione in concorso di Timbuktu. In competizione c'erano, oltre al film di Sissako, titoli di autori quotati come il maliano Cheikh Oumar Sissoko (premiato nel 1995 per Guimba) e la tunisina Raja Amari, ma il palmàres ha salutato per la quarta volta nella storia il film di un regista marocchino, Fièvres di Hicham Ayouch, fratello minore di quell'Nabil che aveva a sua volta vinto uno Stallone di Yennenga nel 2001 con Ali Zaoua. Fièvresè stato preferito all'algerino Fadma N'soumer, Stallone d'argento, e al burkinabèL'Oeil du cyclone di Salif Traoré.

Nelle altre sezioni, segnaliamo l'affermazione di un film mauritano nella sezione corti (De l'eau et du sang di Abdelilah Eljaouhary), di un film sudafricano nella sezione documentari (Miners Shot Down, di Rehad Desai, il cui interesse abbiamo segnalato a più riprese), e di una serie di produzione ivoriana nella sezione dedicata (Chroniques africaines di Marie-Christine Amon).
Nei giorni del festival, è stato pubblicato in line il primo numero della rivista di critica Awotele, in francese, a cui hanno contribuito tra gli altri Claire Diao e Michel Amarger.

Qui di seguito riportiamo il palmarès integrale del festival:

FESPACO 2015 Awards | Palmarès

Jury: Feature | Long métrage
Kwaw Ansah (Ghana, President)
Alex Descas (Antilles)
Selome Guerima (Ethiopie)
Emmanuel Sanon (Burkina Faso)
Soheir Abdel Kader (Egypte)
Tsitsi Dangarembga (Zimbabwe)
Lahcen Zinoun (Maroc-Morocco)

Jury: Court métrage et série TV | Short film and TV series
Firmine Richard (Guadeloupe, President)
Daoud Aoulad-Syad (Maroc-Morocco)
Hurel Regis Beninga (Central African Republic)
Laza Razanajatovo (Madagascar)
Mariam Souréa Vanessa Touré (Burkina Faso)

Jury: Documentaire et Films écoles | Documentary and Film Schools
Ousmane William Mbaye (Senegal, President)
Abdoul Dragoss Ouedraogo (Burkina Faso)
Mickey Fonseca (Mozambique)
Jean-Marie Teno (Cameroon-Cameroon)
Mohamed Said Ouma (Reunion)

FEATURE | LONG METRAGE

Avant le printemps (“Before Spring”) by/d'Ahmed Attef (Egypte)
PRIX DE L'UNION EUROPÉENNE

C'est eux les chiens | They are the Dogs by/d'Hicham Lasri _ (Morocco/Maroc)
MEILLEURE IMAGE

Cellule 512 (“Cell 512”) by/de Missa Hebié (Burkina Faso)
- MEILLEURE AFFICHE (POSTER)
- LE PRIX SINGIS DE L'ASSOCIATION CATHOLIQUE MONDIALE POUR LA COMMUNICATION

Des étoiles | Under the Starry Sky by/de Dyana Gaye (Senegal)
PRIX CEDEAO DE LA MEILLEURE RÉALISATRICE AFRICAINE | ECOWAS BEST WOMAN DIRECTOR AWARD

Entre le marteau et l'enclume (“Between the Hammer and the Anvil”)
by/d'Amog Lemra (RC)

Esclave et courtisane (“Slave and Courtesan”) by/de Christian Lara (Guadeloupe)

Fadhma N'Soumer by/de Belkacem Hadjadj (Algérie/Algeria)
- ETALON D'ARGENT | SILVER STALLION
- MEILLEUR MONTAGE (EDITING)
- MEILLEUR SON (SOUND)
- MEILLEUR SCÉNARIO

Fièvres (“Fevers”) by/de Hicham Ayouch (Morocco/Maroc)
ETALON DE YENNENGA | GOLDEN STALLION

Four Corners (“Quatre coins”) by/de Ian Gabriel (South Africa)

Haïti Bride by/de Robert Yao Ramesar (Trinidad-Tobago)

J'ai 50 ans (“I am 50 years old”) by/de Djamel Azizi (Algérie/Algeria)

L'œil du cyclone (“Eye of the storm”) by/de Salif Traoré (Burkina Faso)
- ETALON DE BRONZE – BRONZE STALLION
- PRIX SPÉCIAL DE L'INTÉGRATION DE LA CEDEAO
- MEILLEUR ACTEUR (ACTOR): FARGASS ASSANDÉ
- MEILLEUR ACTRICE (ACTRESS): MAIMOUNA NDIAYE
- PRIX OUMAROU GANDA
- ECOBANK PRIX SEMBÈNE OUSMANE
- LE PRIX DE L'UEMOA DE L'INTÉGRATION

Morbayassa by/de Cheik Camara (Guinée)
PRIX PAUL ROBESON

O Espinho da Rosa by/de Filipe Henriques (Guinée Bissau)

Price of love (“Prix d'amour”) by/de Hailay Hermon (Ethiopia/Éthiopie)
LE PRIX DE LA VILLE DE OUAGADOUGOU | THE CITY OF OUAGADOUGOU AWARD

Printemps tunisien (“Tunisian spring”) by/de Raja Amari (Tunisia/Tunisie)

Rapt à Bamako by/de Cheick Oumar Sissoko (Mali)

Render to Cesar by/de Desmonde Ovbiagele Onyekachi Ejim (Nigeria)

Run by/de Philippe Lacôte (Côte d'Ivoire)
PRIX DU CONSEIL DE L'ENTENTE

Timbuktu by/d'Abderrahmane Sissako (Mauritania)
- MEILLEUR DÉCOR (SET)
- MEILLEURE MUSIQUE (MUSIC)

SHORT | COURT-MÉTRAGE

À cœur ouvert (“With an open heart”) by/d'Ayekoro Kossou (Bénin)

Aïssa's Story | "l'histoire d'Aïssa" by/d'Iquo Essien (Nigeria)

Ashley by/d'Ibrahim Ibra Kwizeka (Burundi)

Chambre noire (“Darkroom”) by/d'Oumar Niguizié Sinenta (Mali)

Cinq boîtes de lait (“Five boxes of milk”) by/de Siam Marley (Côte d'Ivoire)

Coming Home (“Le retour”) by/de Marinda Stein (Namibia)

Damaru by/d'Agbor Obed Agbor (Cameroon/Cameroun)
LE PRIX UNICEF POUR LE DROIT DES ENFANTS

De l'eau et du sang (“Of water and blood”) by/d'Abdelilah Eljaouhary (Mauritania)
POULAIN D'OR | GOLDEN

Derniers recours (“Last ditch”) by/de Mahi Bena (Algeria/Algérie)

Jìn'naariyâ! | L'alliance | The Golden Ring by/de Rahmatou Keïta (Niger)

Kamelo by/de Jean-Claude Bourjolly (Haiti)

Kwaku Ananse by/d'Akosua Adoma Owusu (Ghana)

La Boucle (“The loop”) by/de Didier Cheneau (Réunion)

La dot (“The dowry”) by/de Tahirou Tasséré Ouédraogo (Burkina Faso)

Les avalés du Grand Bleu by/de Maxime Kossivi Tchincoun (Togo)
- MENTION SPÉCIALE
- LE PRIX DE L'UEMOA DE L'INTÉGRATION

Madama Esther by/de Luck Razanajaona (Madagascar)
POULAIN D'ARGENT | SILVER

Malika et la sorcière (“Malika and the sorceress”) by/de Boureima Nabaloum (Burkina Faso)

Moane Mory by/de Pacôme Amédée Nkoulou Allogo (Gabon)

Muruna by/de Moly Kane (Senegal)

Soeur Oyo (“Sister Oyo”) by/de Monique Mbeka Phoba (RDC)

Twaaga by/de Cédric Ido (Burkina Faso)
MENTION SPÉCIALE

Zakaria by/de Leyla Bouzid (Tunisia)
-POULAIN DE BRONZE
-LE PRIX THOMAS SANKARA DE LA GUILDE AFRICAINE DES RÉALISATEURS ET PRODUCTEURS | THE AFRICAN FILMMAKER AND PRODUCER GUILD THOMAS SANKARA AWARD
-LE PRIX IBN BATTUTA DE ROYAL AIR MAROC | ROYAL AIR MOROCCO IBN BATTUTA AWARD

DOCUMENTARY | DOCUMENTAIRE

10949 femmes (“10949 women”) by/de Nassima Guessoum (Algeria/Algérie)

Ady Gasy by/de Nantenaina Lova (Madagascar)

Asni: Courage, passion and glamor in Ethiopia by/de Samuel Rachel (Ethiopia/Éthiopie)

Beats of the Antonov by/de Hajooj Kuka (South Africa/Afrique du Sud)

Devoir de mémoire (“Duty of memory”) by/de Mamadou Cissé (Mali)
DOCUMENTAIRE ARGENT | SILVER DOCUMENTARY

Egypt's Modern Pharaohs | Les pharaons moderns de l'Égypte by/de Jihan El-Tahri (Egypte)

Esklavaj Reparasyon by/de Jean-Luc Sylvain et Michel Miheaye (Togo)

Intore, entre la danse et l'art de la guerre (“Intore, between dance and the art of war”) by/de Aristide Muco et Aristide Katihabwa (Burundi)

Koukan Kourcia, les médiatrices (“Koukan Kourcia, the women mediators”) by/de Sani Magori (Niger)

La sirène de Faso Fani | The Siren of Faso Fani by/de Michel K. Zongo (Burkina Faso)
- LONAB PRIX DE LA CHANCE
- LE PRIX DE L'UEMOA DE L'INTÉGRATION

La souffrance est une école de sagesse | Suffering is a School of Wisdom by/d'Ariane Astrid Atodji (Cameroun/Cameroon)

Le chant des tortues | The Turtle's Song by/de Jawad Rhalib (Maroc/Morocco)

Mantuila, un fou de la guitare (“Mantuila, passionate about the guitar”) by/de Michée Sunzu Tshimanga (RDC)

Miners Shot Down (“Mineurs abattus) by/de Desai Rehad (South Africa/Afrique du Sud)
MEILLEURE DOCUMENTAIRE (D'OR) | BEST DOCUMENTARY (GOLDEN)

Momsarew by/d'Alassane Diagne (Senegal)

Paths To Freedom (“Les Chemins de la Liberté”) by/de Richard Pakleppa (Namibia)

Sur les chemins de la Rumba (“On the roads to the Rumba”) by/de David-Pierre Fila (Cameroun/Cameroon)

Sur un air de révolte ("To the tune of rebellion") by/de Franck Salin (Guadeloupe)

Tango Negro, les racines africaines du tango | Tango Negro, the African Roots of Tango by/de Dom Pedro (Angola)
DOCUMENTAIRE | DOCUMENTARY BRONZE

Victorieux ou morts mais jamais prisonniers | Victorious or Dead, but never Prisoner by/de Mario L. Delatour (Haiti)

TV SERIES

Eh les hommes ! Eh les femmes ! (“Hey men! Hey women!”) by/de Apolline Traoré (Burkina Faso) PRIX SPECIAL DU JURY

Chroniques africaines (“African diaries”) by/de Marie-Christine Amon (Côte d'Ivoire)
TV SERIES D'OR | GOLDEN

Coeurs errants (“Wandering hearts”) by/de Sorel Agbodemakou (Bénin)

Courses pour la vie by/de Francis Zossou et Tiburce Bocovo (Bénin)

Dougouba Sigui by/de Boubacar Sidibe (Mali)

Du jour au lendemain (“Overnight”) by/d'Adama Roamba (Burkina Faso)

La belle-mère (“The Mother-in-law”) by/d'Ebenezer Kepombia (Cameroon/Cameroun)

Lex Nostra by/de Gérard Désiré Nguele Amougou (Cameroon/Cameroun)

Tôt ou tard (“Sooner or later”) by/de S. Bernard Yameogo (Burkina Faso)

FILM SCHOOLS | ECOLES DE CINÉMA

Bebi Solo (ESEC, Togo)

La Merveilleuse et mystérieuse croix d'agadez (“The magnificent and mysterious Agadez Cross”) by/d'Amadou Dénis Roufay (IFTIC, Niger)

Délestage électrique by/de Karim Koné (Brico Films Formation, Mali)

Dinan by/de Senami Kpetehogbe (Isma, Bénin)

Elise by/de Saho Zoh (ISMA, Bénin)

Et si Dieu avait tort (“And if God were wrong”) by/de Palyikem Kpatchaa (Esec, Togo)

Je danse, donc je suis (“I dance, therefore I am”) by/d'Aissata Ouarma (ISIS, Burkina Faso)
MEILLEUR DOCUMENTAIRE | BEST DOCUMENTARY

Kadi (Lanterne | Lantern) by/de Lawrence Agbetsise (Nafti, Ghana)

Kanko l'Ixelloise by/de Boubacar Sangaré (ISIS, Burkina Faso)

Karité, manne des savanes (Shea butter, a blessing of the Savanna) by/d'Félicia Abenan Abossi Kouakou (ISACOM, Côte d'Ivoire)
LE PRIX DE LA SANTÉ ET DE LA SÉCURITÉ AU TRAVAIL DE L'UNION AFRICAINE | AFRICAN UNION HEALTH AND SECURITY AT WORK AWARD

Liberté emprisonnée (“Freedom imprisoned”) by/de Sara Mikayil (ESAV, Maroc/Morocco)

Sagar by/de Pape Abdoulaye Seck (ESAV, Maroc/Morocco)
MEILLEUR FILM DE FICTION

Stigmate d'une prêtresse (“Stigma of a priestess”) by/de Prince Kong A. Maneng (ISMA, Bénin)

Le voyageur (“The traveler”) by/de Peter Sedufia (NAFTI, Ghana)
PRIX SPÉCIAL DU JURY

Wakman by/de Sékou Oumar Sidibé (ISIS, Burkina Faso)

Arriva il Festival del film francofono

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Sarà il pluripremiato Timbuktu di Abderrahmane Sissako ad inaugurare, fuori concorso, la sesta edizione del Francofilm - Festival del film francofono di Roma che si terrà dal 24 al 31 marzo prossimi all'Institut français-Centre Saint-Louis.
Organizzata in collaborazione con le Ambasciate e rappresentanze di Paesi membri dell'Organizzazione Internazionale della Francofonia, la rassegna presenta 10 lungometraggi in concorso provenienti da: Albania, Belgio, Canada-Québec, Francia, Libano, Lussemburgo, Marocco, Senegal, Svizzera e Tunisia.
Oltre a Timbuktu (Mali), segnaliamo i film Zero di Nour-Eddine Lakhmari (Marocco), Aujourd'hui di Alain Gomis (Senegal) e Bastardo di Nejib Belkadhi (Tunisia).

Qui è possibile scaricare il programma completo del festival:
http://issuu.com/institutfrancaisderome/docs/programme_francofilm_2015__2_

[Maria Coletti]

Morto il regista nigerino Alassane

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Un altro padre del cinema africano ci ha lasciato: lo sceneggiatore e regista del Niger, Moustapha Alassane è deceduto mercoledì scorso all'età di 73 anni, in seguito a una lunga malattia.

Alassane è stato il regista del primo film del Niger, Aouré (1962) e del primo film di animazione africano, La Mort de Gandji (1963). Dopo aver iniziato ad occuparsi di cinema a Niamey, ha studiato cinema d'animazione in Canada.

Con il suo lavoro, Alassane ha contribuito allo sviluppo di una cultura cinematografica nel suo paese ed ha messo in luce anche il Niger nella carta cinematografica del continente africano. In totale, ha realizzato 28 film, fra il 1962 e il 2003, anno in cui ha firmato il suo ultimo film, Tagimba.

Il suo sguardo, spesso satirico e critico sulla società, ha messo in valore il patrimonio culturale locale, e si è saputo rivolgere anche ai giovani: Alassane è stato infatti direttore della sezione Cinema dell'Università di Niamey per 15 anni.

Per chi volesse saperne di più, rimandiamo al bel documentario di Maria Silvia Bazzoli e Christian Lelong: Moustapha Alassane, cinéaste du possible.

[Maria Coletti]

Sissako omaggiato alla Filmoteca di Valencia

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Dal 1° al 10 aprile la Filmoteca di Valencia, in collaborazione con il Festival del Cine Africano di Cordoba e con l'Istituto Francese di Cultura nei mesi dedicati alla francofonia, omaggia il talento e lo sguardo poetico di un cineasta d'eccezione, il mauritano Abderrahmane Sissako.
La rassegna presenta quasi tutte le opere del regista, partendo dal cortometraggio Le Jeu, il suo film di diploma al VGIK di Mosca, passando per pietre miliari come La Vie sur terre e Bamako, fino all'ultimo capolavoro, Timbuktu, con il quale il regista ha vinto 7 Césars ed è stato nominato all'Oscar come Miglior film straniero.

Qui è disponibile il programma e la presentazione della rassegna:
http://ivac.gva.es/la-filmoteca/programacion/ciclos/ciclo_1175/abderrahmane-sissako

[Maria Coletti]

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