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Channel: CINEMAFRICA | Africa e diaspore nel cinema
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Contro il blackface e un utilizzo becero degli stereotipi

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Qualche giorno fa ci eravamo permessi di commentare la pericolosità di una deriva in atto nel cinema italiano commedico verso il recupero di un razzismo di bassa Lega (scusate il bisticcio), fatto di battute a senso unico in cui il destinatario è invariabilmente il soggetto migrante, meridionale o altro dall'idealtipo italiano doc, riconducibili a un repertorio antico, di ascendenza coloniale ma che tradizionalmente ha assorbito le peggiori tradizioni del suprematismo bianco d'importazione, come il blackface. Mi riferisco all'utilizzo di un fondotinta o cerone scuro che consente a un attore caucasico di impersonare un personaggio nero, ricorrente in una forma tipica del teatro popolare statunitense come il minstrel show, storicamente avversata dalla comunità afroamericana e ciononostante tuttora oggetto di parziali recuperi, per esempio nel recente film di Ridley Scott, Exodus - Dei e re.

La pietra dello scandalo era rappresentata dall'ultimo film di Aldo, Giovanni e Giacomo, Il ricco, il povero e il maggiordomo, che purtroppo viene dopo due altri casi di commedia populista che rovista, in modo più o meno sofisticato, in questo repertorio di facezie da ventennio, come Tutto molto bello e La più bella scuola del mondo.
Online da oggi c'è una petizione promossa da due associazioni che fanno parte della galassia delle seconde generazioni, Figli della lupa-Non solo banane e Associazione Afroitaliani/e. L'iniziativa, prima di ogni altra cosa, crediamo miri a segnalare ai produttori e distributori del film che c'è una nicchia di pubblico già consistente ma in sicura crescita, formata da ragazzi e ragazze della seconda generazione e non solo, stanchi di un cinema italiano capace di offrire solo caricature tristi, stereotipi stantii o sociotipi dell'immigrato, ignorando la realtà complessa, contraddittoria, ma vivace e ricca, della società multiculturale italiana. Ecco perché sosteniamo con convinzione questa petizione, al di là dell'obiettivo specifico dichiarato, come primo segno vitale di rivolta davanti a uno stato di cose che in vari contesti abbiamo dichiarato inaccettabile, anche perché rischia di sostenere uno strisciante processo di saldatura in atto tra un razzismo istituzionale, uno mediatico e uno “popolare”.

Qui di seguito pubblichiamo il testo della petizione, rinviandovi alla nostra recensione del film.

Chiediamo che il nuovo film di Aldo, Giovanni e Giacomo, “Il ricco, il povero e il maggiordomo”, venga ritirato dalla distribuzione perché intriso di un'ironia caricaturale discriminatoria basata sull'utilizzo del blackface e di altri stereotipi razzisti.

Figli della Lupa - Non solo banane e Associazione Afroitaliani/e Mentre il mondo e la società moderna sono sempre più multiculturali e sensibili alle differenze, il nostro paese decide, in nome della libertà di espressione, di ispirarsi a vecchi modelli comunicativi basati sull'immagine denigrante e stereotipata dei neri e di altre comunità.

L'ultimo film di Aldo Giovanni e Giacomo, “Il ricco, il povero e il maggiordomo”, mette in scena la caricatura dell'uomo nero, utilizzando una pratica ormai riconosciuta dall'intera comunità nera mondiale come offensiva e razzista, quella del blackface.

Il blackface è uno stile di make-up che consiste nel truccarsi il viso di nero e veniva utilizzato in passato per rappresentare la parodia dell'uomo nero, stigmatizzando le sue caratteristiche fisiche. Esse diventavano parte integrante di un'ironia caricaturale basata su stereotipi razzisti che metteva in scena personaggi generalmente pigri, ignoranti e superstiziosi dotati di una passione smodata e ridicolizzata per il ballo e la musica.

I Minstrel Show erano gli spettacoli teatrali all'interno dei quali gli attori ricorrevano a tale trucco, che furono inizialmente molto in voga negli Stati Uniti, ma successivamente anche in Europa. I personaggi in essi rappresentati inspirarono una vera e propria iconografia e l'immagine del Darky iniziò ad apparire nelle pubblicità, nelle favole per bambini, nei cartoni animati, nei marchi dei prodotti e via dicendo, contribuendo a consolidare lo stereotipo del buon nero selvaggio e scansafatiche.

Per tali ragioni, esso è oggi percepito da molti neri come un gesto profondamente razzista che, a prescindere dalle buone intenzioni di chi lo compie, rievoca immagini decisamente sgradevoli.

Poiché il blackface è ormai considerato dall'intera comunità nera come inaccettabilmente razzista e profondamente offensivo, nonché a causa della mediocre ironia incentrata su stereotipi razziali anche nei confronti di altri gruppi etnici, chiediamo che, in un'ottica antirazzista e nel rispetto delle sensibilità altrui, il nuovo film di Aldo, Giovanni e Giacomo, “Il ricco, il povero e il maggiordomo”, venga ritirato dalla distribuzione.

Seguendo questo link puoi firmare la petizione (qui).


Difret in sala dal 22 gennaio

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Difret - Il coraggio per cambiare, il film di Zeresenay Berhane Mehari coprodotto da Angelina Jolie, sarà nelle sale italiane dal prossimo 22 gennaio, distribuito da Satine Film.

Premiato dal pubblico al Sundance e a Berlino, ispirato da una storia vera e candidato agli Oscar per l'Etiopia come Miglior film straniero, Difret racconta della ribellione di Hirut.

A sole tre ore da Addis Abeba, Hirut, una sveglia ragazzina di quattordici anni, mentre sta tornando a casa da scuola viene aggredita e rapita da un gruppo di uomini a cavallo Hirut riesce ad afferrare un fucile e, nel tentativo di fuggire, spara uccidendo Tadele, ideatore del rapimento nonché suo “aspirante futuro sposo”. Nel villaggio di Hirut e Tadele, cosi come nel resto dell'Etiopia, la pratica del rapimento a scopo di matrimonio, è una delle tradizioni più antiche e radicate, e la ribellione di Hirut, che uccide l'uomo che l'ha scelta, non le lascia possibilità di scampo.
Nel frattempo, ad Addis Abeba, una giovane donna avvocato, Meaza Ashenafi, si batte con tenacia e determinazione per difendere i diritti dei più deboli; tramite l'attività di ANDENET, un'associazione di donne avvocato, offre assistenza legale gratuita a coloro che non se la possono permettere. Obiettivo di Meaza è far rispettare la legge ufficiale del Paese, rendendo così inefficaci le decisioni prese, secondo consuetudine, dai consigli tradizionali popolari.
Meaza viene a conoscenza dell'arresto di Hirut e cerca di farsi affidare il caso per dimostrare che la ragazzina ha agito per legittima difesa e proteggerla quindi dalla vendetta dei familiari del defunto e dal carcere a vita imposto dalla legge.

Meaza Ashenafi nel 2003 è stata insignita del Premio Nobel Africano (The Hunger Projects Prize) per il suo impegno a difesa dei diritti delle donne in Etiopia.

Il film Difret"scava tra le pieghe delle convenzioni sociali, mettendo in luce una forma di patriarcato aggressivo e consolidato che, in Etiopia, continua a perpetuare pratiche discriminatorie nei confronti delle donne. Il film ritrae la complessità di un Paese in cui è in atto una trasformazione per il raggiungimento di pari diritti tra uomo e donna, dando voce alla coraggiosa generazione che osa battersi per il cambiamento" (Sundance Film Festival).

Ecco il link al trailer del film:
https://www.youtube.com/watch?v=uNuuokn7J-o&feature=youtu.be

[Maria Coletti]

In morte di un anticolonialista

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È morto il 4 gennaio in Bretagna, la regione dov'era nato (a Camaret-sur-Mère) il 15 gennaio 1928. Avrebbe quindi compiuto tra pochi giorni 87 anni, René Vautier. Una vita piena, la sua, sempre in prima linea per i diritti dei popoli colonizzati, per la dignità del popolo bretone, contro il razzismo, il fascismo risorgente, l'inquinamento. La Mostra di Venezia gli ha reso un omaggio due anni fa presentando la versione restaurata di Avoir vingt ans dans les Aurès (1972), forse il suo film più popolare, premiato dalla critica a Cannes, nel quale cercava di raccontare la guerra d'Algeria dal punto di vista di un soldato bretone, rieducato dall'antimilitarismo iniziale alla caccia spietata al fellagha. Più di recente, il festival Logos di Roma, organizzato al CSOA Ex-Snia ha presentato in anteprima mondiale il suo ultimo lavoro, un documentario girato a quattro mani con la figlia Moïra Chappedelaine-Vautier, Histoires d'images, Images d'Histoire (2014), sulla memoria di una storica manifestazione operaia nella Brest distrutta del 1950, soffocata nel sangue.

Cineasta operaista, attivo da giovanissimo e decorato da de Gaulle per il suo ruolo di primo piano nella resistenza francese, Vautier si diploma nel 1948 all'IDHEC per dedicarsi da subito a un cinema diretto, scomodo, dalla parte dei subalterni. Il suo esordio lo consegna subito alla storia del documentario del Novecento, con Afrique 50, considerato il primo documentario anticolonialista prodotto in Francia, girato a soli 21 anni; inviato dalla Lega francese per l'insegnamento a testimoniare i benefici della colonizzazione nell'ambito scolastico, Vautier si trova a toccare con mano gli effetti nefasti del colonialismo francese nei paesi dell'Africa occidentale, e produce un pamphlet che gli vale oltre 40 anni di messa al bando e alcuni mesi di prigione.

Ma è sul fronte caldissimo della guerra d'Algeria che Vautier spenderà la sue energie creative e civili migliori. Nel 1954 gira un primo film di repertorio sulla conquista d'Algeria (1830) che termina pochi giorni dopo l'inizio della rivolta sull'Aurès, invocando un dialogo con il Fronte di Liberazione Nazionale. Verrà processato per attentato alla sicurezza nazionale dello Stato per questo film, sequestrato e andato perso. Nel 1956 decide di recarsi in Algeria per capire cosa stesse effettivamente succedendo, dal momento che la cortina fumogena eretta dai media nazionali era fittissima. Passa prima in Tunisia, da poco indipendente, e gira tra il 1957 e il 1958 ai confini tra i due paesi Algérie en flammes, un documentario di venti minuti postprodotto in Germania dell'Est. Si trova testimone del tragico massacro di Sakiet Sidi Youssef, l'8 febbraio 1958, costato oltre 70 vittime, diversi dei quali bambini e procurato dall'aviazione francese, dopo il quale decide di interrompere le riprese e chiudere il montaggio ritenendo fosse fondamentale mostrare il film prima possibile. Terminato il film, tuttavia, Vautier ignora che il suo referente in seno all'FLN è stato eliminato in quanto considerato ostile a Ben Bella, e finisce lui stesso incarcerato e torturato per due anni dalle autorità provvisorie algerine. Liberato e completamente riabilitato in quanto protagonista della scena del nuovo cinema algerino anticoloniale, Vautier assume l'incarico di direttore del Centre audiovisuel d'Alger dal 1962 al 1965 ma senza mai rinunciare all'indipendenza e alla libertà di giudizio, come prova una storica lite con Fanon.

Rientrato in Francia, entra nella banda di cineasti-operaisti del Groupe Medvedkine, insieme a Ivens, Godard e Marker e combatte una battaglia di libertà, impegnandosi di persona in uno sciopero della fame dal 1° gennaio 1973 contro la censura politica, in protesta contro un blocco opposto a un film che ricordava la terribile strage dimenticata del 17 ottobre 1961 avvenuta a Parigi contro i manifestanti a favore dell'Algeria libera. Sempre pronto a mettere a disposizione la sua energia alle cause più urgenti, Vautier è rimasto protagonista assoluto della scena del cinema diretto fino agli anni Duemila, quando la sua opera pluridecennale è stata progressivamente riscoperta e fatta oggetto di omaggi.
Nel 2013, la cooperativa Les Mutins de Pangée ha editato una pregevole edizione libro più dvd di Afrique 50 (vedi) che non dovrebbe mancare nella biblioteca di nessun DAMS o scuola di cinema degni di questo nome.

Ricordo con particolare calore la testimonianza di sua figlia Moïra (nella foto ritratta con il padre), in cui emergevano insieme la consapevolezza del ruolo storico giocato da un cineasta come René Vautier per un cinema libero e in grado di smuovere le coscienze intorno a temi di fondamentale rilevanza per la civiltà di un paese, il desiderio di battersi per il recupero di questa memoria e una sorta di presa di testimone per portare avanti, con modestia, questa missione.

Si spegne la regista Asma El Bakry

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Si è spenta un giorno dopo René Vautier, lunedì 5 gennaio, a 68 anni. Asma El Bakry era alessandrina, come il grande Youssef Chahine, di cui era stata assistente. Aveva fatto studi universitari ad Alessandria e al Cairo, interessandosi prima di letteratura francese e poi di storia, prima di entrare nel mondo del cinema come assistente, oltre che di Chahine, di Salah Abu Seif. Prima di esordire come regista, ha lavorato sul set di numerose produzioni straniere in Egitto e ha realizzato diversi documentari.

È stata una delle prime registe ad imporsi in una cinematografia strutturata e solida ma sessista come quella egiziana. Ha realizzato tre lungometraggi: Mendiants et orgueilleux/Chahatin wa noubala' (1991), tratto dal romanzo storico di Albert Cossery, Concerto dans la rue du bonheur/Concerto fi darb sa'aada (2000), con cui il Premio Naguib Mahfouz al Festival del Cairo, e infine La Violence et la dérision/Al'Unf wa-l-sukhrya (2005). Yousry Nasrallah, cui la legava la comune amicizia con Chahine, è stato tra i primi a commentare il suo decesso, twittando "Oggi abbiamo perso una cara amica e una regista di talento: Asma El Bakry”.

[Leonardo De Franceschi]

Presentato a LA biopic "Whitney"

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E' stato presentato a Los Angeles il film biografico Whitney, dedicato alla figura della cantante Whitney Houston, scomparsa tragicamente nel 2012 a soli 48 anni.
Diretto dall'attrice Angela Bassett, qui al suo debutto registico, che con lei aveva recitato in Donne - Waiting To Exhale, il film è interpretato da Yaya DaCosta nei panni di Whitney, cui Deborah Cox dà la voce da cantante.
Il film andrà in onda sul canale americano Lifetime il 17 gennaio, mentre non si sa ancora se e come verrà distribuito in Italia.
Fonte: ComingSoon.it

[Maria Coletti]

Selma: MLK e la marcia del 1965 al cinema

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Esce oggi negli Stati Uniti il film Selma di Ava DuVernay, una ricostruzione della famosa marcia del 7 marzo 1965 da Selma a Montgomery in Alabama, in nome dei diritti di voto dei neri.
Il film ha fatto subito notizia non solo perchéè considerato un favorito per gli Oscar (Ava DuVernay potrebbe diventare la prima regista afroamericana mai premiata), ma anche perché alcuni storici sostengono che la ricostruzione del rapporto tra il presidente Usa Lyndon Johnson (detto Lbj) e Martin Luther King (interpretato pare magistralmente da David Oyelowo) non sia corretta.
Da sottolineare che il progetto del film è stato rimandato per dieci anni, fino a che DuVernay, che è una regista ma anche un'attivista (fondatrice dell'African-American Film Festival Releasing Movement) non lo ha preso in mano.
“Resistance is us/ That's why Rosa sat on the bus/ That's why we walk through Ferguson with our hands up” [“La resistenza siamo noi, ecco perché Rosa – Parks; ndr – si è seduta sull'autobus, ecco perché camminiamo a Ferguson con le mani in alto”], canta il rapper Common alla fine del film, citando la donna simbolo delle lotte per i diritti civili dei neri negli Usa e la città in cui la scorsa estate un diciottenne nero disarmato è stato ucciso da un poliziotto bianco. La storia continua...

Fonte: Corriere della Sera (Viviana Mazza)

[Maria Coletti]

Solo un Golden Globe per Selma

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Attribuiti i Golden Globes dalla Foreign Press Association. Le numerose nomination pesanti hanno partorito solo un premio minore per Selma, di Ava DuVernay, che ripercorre una delle pagine più importanti della lunga lotta della comunità afroamericana per l'affermazione dei suoi diritti, in distribuzione il 2 aprile. Qui di seguito potete leggere in inglese la dichiarazione rilasciata da Common, uno degli autori della canzone che ha vinto il premio nella categoria Best Original Song, e a questo link potete vedere anche la clip con la consegna del premio da parte di Prince (qui).

"The first day I stepped on the set of Selma, I began to feel like this was bigger than a movie. As I got to know the people of the Civil Rights Movement, I realized, I am the hopeful black woman who was denied her right to vote. I am the caring white supporter, killed on the front lines of freedom. I am the unarmed black kid, who maybe needed a hand, but instead was given a bullet. I am the two fallen police officers murdered in the line of duty. Selma has awakened my humanity, and I thank you Ava. Ava, you are a superhero, You used art to elevate us all and bring us together ... Oprah, for what you do for the people from the past and creating for the future. We look to the future and we want to create a better world. Now is our time to change the world. Selma is now."

[Leonardo De Franceschi]

Lupita regina degli scacchi per Mira Nair

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Secondo Tambay Obenson di Shadow and Act, Lupita Nyong'o (12 anni schiavo) sarebbe stata scritturata per il prossimo film di Mira Nair, una produzione Disney tratta da un romanzo di Tim Crothers (La regina bambina, edito in Italia da Piemme) ispirata alla storia vera di Phiona Mutesi, una ragazzina di nove anni, poverissima, che vive in un povero villaggio paludoso dell'Uganda e scopre di avere un talento nascosto per gli scacchi.

Su questa storia sono stati tratti diversi documentari, a quanto pare, ma questo è il primo film di finzione. Il progetto è stato annunciato in realtà da un paio d'anni ma solo da poco è stata ufficializzata l'adesione di Nyong'o al cast, che dovrebbe essere di nuovo in compagnia di David Oyelowo, di cui diversi si ricorderanno per essere l'interprete del figlio radicale in The Butler e che interpreta Martin Luther King nell'imminente Selma.

[Leonardo De Franceschi]


Difret

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La pratica del rapimento di una donna con lo scopo di arrivare al matrimonio è una pratica antica che è stata utilizzata nei secoli in molte e diverse culture. Ad oggi, in alcuni luoghi, come in Etiopia, questa pratica è ancora utilizzata e accettata come tradizione che si tramanda di generazione in generazione. Ma cosa accade quando una tradizione secolare viene messa in discussione?
A questa domanda prova a rispondere Difret, primo lungometraggio diretto da Zeresenay Berhane Mehari, regista etiope con una lunga esperienza di studio e lavoro negli Stati Uniti. L'esordio dietro la macchina da presa di Mehari è stato segnato da due importanti riconoscimenti, il Premio del Pubblico dell'ultima edizione del Sundance Film Festival, dove Difretè stato presentato, e il Premio del Pubblico della sezione Panorama della 64ma edizione della Berlinale.
Difret esce finalmente anche nelle sale italiane, il prossimo 22 gennaio, distribuito da Satine Film.

Difret racconta l'incontro di due donne, Meaza Ashenafi, giovane avvocato che fornisce sostegno legale a donne e bambini che subiscono violenze, e Hirut, ragazza studiosa che vive in una zona rurale a tre ora da Addis Abeba. Hirut un giorno dopo la scuola viene rapita da un gruppo di uomini a cavallo e violentata dall'uomo che vuole prenderla in moglie, come secondo la tradizione del rapimento. Hirut riesce a scappare e nell'inseguimento uccide l'uomo che l'ha violentata e viene presa dalla polizia locale. La storia di Hirut arriva ad Addis Abeba e Maeza si prende carico di difendere la ragazza.

Difretè ispirato a una storia vera e per questo è ambientato nel 1996, periodo in cui il regista lasciava il suo paese d'origine per studiare negli USA. Il film è stato prodotto sotto l'ala protettiva di Angelina Jolie che l'ha presentato alla Berlinale. Girato interamente in Etiopia e in amarico, il film ha un esplicito intento di denuncia nei confronti di un mondo legato alla tradizione che va in conflitto con i cambiamenti che lo circondano. Meaza si scontra come prima cosa con la polizia locale e con la gente delle campagne che è convinta dell'errore di Hirut. Il primo passo è dunque portare la ragazza in città, toglierla dalla prigione locale e avviare il processo.

Il regista procede parallelamente su due binari, quello della giustizia dello Stato e quello della giustizia del villaggio: una sequenza mostra l'arrivo dei rappresentati dei villaggi che devono discutere con il consiglio degli anziani del destino di Hirut che ha infranto una legge. I più giovani la vorrebbero condannata a morte, gli anziani decidono per un'altra pena. Mehari procede lungo tutto il film su questi due binari per mostrare le contraddizioni che nascono dalla messa in discussione delle tradizioni. Così anche la sequenza dell'accoglienza provvisoria di Hirut nell'appartamento di Maeza ad Addis Abeba, oltre che sottolineare la prova intensa delle due attrici protagoniste, Meron Getnet e Tizita Hagere, è un interessante osservazione sull'incontro fra due mondi.
Hirut è affascinata da Maeza ma non capisce il suo stile di vita: non è sposata, non ha figli, cucina poco. Questo continuo incontro/scontro tra il mondo legato alle tradizioni e alla legge del villaggio e il mondo moderno che lo mette in discussione è l'elemento di maggior interesse di Difret.

Mehari prende una posizione netta ma allo stesso tempo non giudica, cerca di trasmettere attraverso la storia di un avvocato che in dieci anni ha assistito oltre trentamila donne violentate, picchiate e in difficoltà, cosa accade quando un sistema è messo in discussione, quando s'interrompe la tradizione e l'elemento che ha causato la rottura può e deve essere giudicato da un soggetto più grande ed esterno, lo Stato, che ha assorbito i diversi microcosmi culturali che vivono nel territorio.

Alice Casalini

DifretRegia: Zeresenay Berhane Mehari; sceneggiatura: Zeresenay Berhane Mehari; fotografia: Monika Lenczewska; musiche originali: Dave Eggar, David Schommer; montaggio: Agnieszka Glinska; scenografia: Dawit Shawel; costumi: Helina Desalegn; interpreti: Meron Getnet, Tizita Hagere, Rahel Teshome; origine: Etiopia/Usa, 2014; formato: 35 mm, 2.35 : 1; durata: 99'; produzione: Haile Addis Pictures, Truth Aid; distribuzione: Moving Turtle; sito ufficiale: http://difret.com/.

An Ethiopian story. A Conversation with Zeresenay Berhane Mehari

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The 22 January will be the day. “Difret”, the first work by the Ethiopian-born Zeresenay Berhane Mehari who seduced first Angelina Jolie and then the audience of Sundance Film Festival and other important international film festivals will be released in Italian theatres. This time, Italian filmgoers will be able to watch the film even before than the French or the Belgian ones. Here you can read our review of the film, written when the news of the acquisition of the rights was not yet come.
“Difret” has not the complexity and subtlety of “Timbuktu” by Abderrahmane Sissako, nor its astounding visual power, just to mention what was “the” African film in 2014, but has the great merit to face a social drama in the tradition of nationalistic African cinema with an approach attentive to Ethiopic audience, possibly didascalic but not blackmailing nor self-consoling, mobilizing human and technical energies borrowed from local film industry.
Enjoy our interview with the director.

You were born in Addis Abeba and moved to US to study film at the University of Southern California. Which models had you in mind as a filmmaker? Did you know Haile Gerima's work?

I grew up during a communist dictatorship in Ethiopia and as a result there were only Bollywood and Russian propaganda films. I didn't develop any idea for a model or style until I went to film school. In my freshman year, I discovered the works of Federico Fellini, Vittorio De Sica, Bergman and many more. And then I quickly fall in love with cinema verite and the stories of the common man.
I didn't know Haile Gerima's work until I was a third year student.

The subject of “Difret” came to you apparently in 2005 when you were introduced to the attorney Meaza Ashenafi by her brother, discovered the case of Hirut Assefa and the tradition of “telefa”, that is the use to abduct and rape teen girls as a way to induce them to accept a forced marriage. What moved you the most in Hirut's story and what finally convinced you that this one would be the subject of your very first feature?

I found out about Hirut's case while doing research on Meaza Ashenafi and the work of her organization. My entry point was Meaza and I knew that I wanted to tell her story and her work in connection with the first free legal service NGO in Ethiopia. Then Hirut's case being the biggest case that the organization represented and the relationship that Meaza and Hirut formed during the case and Hirut's courage to stand up to centuries old tradition made me tell their story.

Which were the main obstacles that forced you to start the shooting only in September 2012?

Securing the fund was by far the main obstacle. I had a chance to make the film multiple times but each money came with a condition that I was not ready to give into. For example in 2009 I had a chance to make the film but the producers wanted to make the film in English and have a known American actor to play Meaza's role. It was important for me to make the film in Amharic and have Ethiopian actors depict all the characters.

You filmed in 35 mm but you chose all the same to involve in the production about 50 Ethiopian crewmembers. I know that in Ethiopia there's a flourishing production of low-budget films realized and distributed locally on the Nollywood model, the actress and poet Meron Getnet had acted before in films made in Ethiopia. I had the impression that you took from that model at least the idea to focus at first on the local audience, not trying necessarily to please the selection committees of film festivals and film critics. What was your relation to film industry in Ethiopia and your expectations about the possible audience for a film like “Difret”?

Yes, that's right I made the film primarily for the Ethiopian audience even though the model I followed was not the Nollywood model. I have always wanted to show Ethiopian filmmakers and audience that we can make a film with the highest standards. I have worked in the local film industry off and on since 2003. I was one of the first people who helped start the local film industry. We have made a great stride as a country where we make 125 films a year today.

In the structure of the plot I was impressed by the way you use the rhetoric of ellipses. The dramaturgy of the story lead the viewer to expect that things will go necessarily bad for Hirut and Meaza but then, at the very last moment, something happens that reopens the possibility of hope. Please tell us more about the structure of the script and the work you did on the two main actresses.

In the beginning a lot of people who read the script felt like it was confusing that the film has two protagonists. They were also worried that the film didn't have a clear-cut antagonist. Both concerns come from one way of structuring a film. However, for me it was important to have the audience actively participate in traveling the journey. These women, who are from two different worlds, were fighting two different fights in that particular case. So the outcomes were different as well. Meaza felt like she won by getting Hirut acquitted on the bases of self-defense, but for Hirut the victory was bittersweet. Yes, she is free but she can't ever see her family again. I had to structure the film in a way that included the competing events. As for working with the two lead actors, my approach was to spend more time on the script and talk about each scene in relation to them or some one in their family. I wanted them to take it personal and discover the emotional element of each scene from their current state of mind or life style as oppose to the words and set up of the script.

The film was premiered at Sundance in January 2013 and is having an incredible fortune in film festivals all over the world, winning audience awards at Park City, but also in Berlin, Amsterdam and Montreal, and the film has been bought in several film markets to be distributed worldwide. Do you think that the presence of Angelina Jolie as executive producer has been decisive to this fortune, or rather the universal appeal of the topic of the fight against child marriages?

There is no question to the influence of Angelina Jolie opening doors for this film. But I'd say the audiences' acceptance of the film and it's multiple awards speaks to, as you said, the universal appeal of the issue in the film and the great performances by they actors.

In September 2014, the official premiere of the film was blocked in Ethiopia by the authorities and the film apparently had to surmount two lawsuits before being released and find the local success it deserved. How do you explain the local reactions that faced your film in your country?

The legal challenges the film has encountered stems from an organized effort to discredit Meaza's work and legacy on the case we chronicle in the film. Human rights lawyers are often not popular in the countries where they challenge the customs and traditions and Ethiopia is no different. The film was initially banned for allegedly giving "too much credit" to Meaza but there was no legal grounding for the claim nor was it valid so the ban was lifted. The film subsequently enjoyed a successful theatrical run in Ethiopia and kicked off its educational outreach efforts that are focused on raising awareness about the issue of child marriage.

The word “difret” in amharic has multiple meanings, from courage and audacity to dare to the act of raping a woman and dishonoring her. Could you say some more about that?

Amharic is a complicated language filled with double-meanings. The word difret in its widest use means courage, but in its secondary use it also means the act of being raped. Of these two meanings we believe the film speaks more to the courage it takes to change traditions and customs which is why we named the film difret.

Una storia etiope. Conversazione con Zeresenay Berhane Mehari

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Il 22 gennaio sarà una data da ricordare. Difret, l'opera prima dell'etiope Zeresenay Berhane Mehari, film che ha sedotto Angelina Jolie e il pubblico del Sundance Film Festival e di altri importanti festival internazionali, uscirà nelle sale italiane. E questa volta gli spettatori italiani potranno vedere il film prima di quelli francesi o belgi.

A questo link (http://www.cinemafrica.org/spip.php?article1473) potete trovare la nostra recensione del film, scritta ancora prima che si sapesse della sua distribuzione in Italia.

Difret non ha la complessità e le sottigliezze di Timbuktu di Abderrahmane Sissako, e neanche la sua sorprendente forza visiva, tanto per citare quello che è stato “il” film africano del 2014. Ma il film di Zeresenay Berhane Mehari ha comunque il grande merito di affrontare un dramma sociale nella tradizione del cinema africano nazionalista, con uno sguardo attento al pubblico etiope, forse un po' didascalico, ma non ricattatorio né rassicurante, e in grado di mettere in moto le risorse umane e tecniche dell'industria cinematografica locale.

Ecco la nostra intervista con il regista.

Lei è nato ad Addis Abeba e poi si è trasferito negli Stati Uniti per studiare cinema all'University of Southern California. Che modelli aveva in mente come regista? Conosceva il lavoro di Haile Gerima?

Sono nato durante la dittatura comunista in Etiopia, di conseguenza nelle sale c'erano solo i film di Bollywood e quelli russi di propaganda. Non ho maturato nessuna idea di stile o di modello cinematografico da seguire, finché non ho frequentato la scuola di cinema. Al mio primo anno di studio ho scoperto le opere di Federico Fellini, Vittorio De Sica, di Bergman e molti altri. E poi mi sono innamorato del cinéma vérité e della possibilità di raccontare storie dell'uomo comune.
Ho scoperto il lavoro di Haile Gerima solo al mio terzo anno di università.

A quanto pare il soggetto di Difret le è venuto in mente già nel 2005, quando ha avuto modo di incontrare l'avvocata Meaza Ashenafi, grazie al fratello, e quindi di conoscere il caso di Hirut Assefa e la tradizione della “telefa”, ovvero la consuetudine di rapire e stuprare adolescenti per indurle ad accettare un matrimonio forzato. Cosa l'ha colpito di più della storia di Hirut e cosa l'ha convinto che proprio questa sarebbe stata il soggetto del suo primo lungometraggio?

Ho saputo del caso di Hirut mentre facevo ricerche su Meaza Ashenafi e sul lavoro della sua organizzazione [l'associazione di donne avvocate etiopi Andernet, ndt]. Il mio punto di partenza era Meaza e sapevo di voler raccontare la sua storia e il suo lavoro proprio in quanto si trattava della prima associazione non governativa per servizi legali gratuiti in Etiopia. Poi il fatto che il caso di Hirut fosse il più grande che l'ong si era trovata a rappresentare, il legame che si era venuto a creare fra Meaza e Hirut durante il processo e il coraggio di Hirut nell'opporsi ad una tradizione secolare: queste tre cose mi hanno spinto a raccontare proprio la loro storia.

Quali sono i principali ostacoli che hanno portato a poter iniziare le riprese solo nel settembre del 2012?

Riuscire a trovare i finanziamenti necessari è stato l'ostacolo principale. Mi sono trovato diverse volte di fronte alla possibilità di realizzare il film, ma ogni volta i soldi mi venivano offerti a una condizione che non potevo e non volevo accettare. Ad esempio, nel 2009 mi è stata offerta la possibilità di realizzare il film, ma i produttori volevano che lo girassi in inglese e che scegliessi una famosa attrice americana per il ruolo di Meaza. Ma per me era fondamentale girare il film in amarico e lavorare con attori etiopi per tutti i personaggi.

Ha scelto di girare in 35 mm e ha coinvolto nella produzione e nel cast circa 50 persone etiopi. So che in Etiopia c'è una fiorente produzione di film realizzati a low budget e distribuiti localmente, sul modello di Nollywood, e la stessa protagonista, l'attrice e poetessa Meron Getnet [nella foto insieme al regista], ha già recitato in diversi film etiopi. Ho l'impressione che da quel modello lei abbia preso l'idea di indirizzarsi innanzitutto al pubblico locale, non cercando quindi di compiacere a tutti i costi i comitati di selezione dei festival o la critica cinematografica internazionale. Che rapporto ha avuto con l'industria cinematografica in Etiopia e quali erano le sue aspettative in merito a un possibile pubblico per un film come Difret?

Sì, è vero: ho fatto il film per indirizzarmi innanzitutto al pubblico etiope, anche se non ho seguito il modello di Nollywood. Ho sempre avuto il desiderio di mostrare ai registi e al pubblico che in Etiopia è possibile realizzare film di altissima qualità tecnica. Ho lavorato a più riprese nell'industria cinematografica locale fin dal 2003. Forse sono stato uno dei primi che ha favorito la nascita di un'industria cinematografica etiope. Abbiamo fatto un grande progresso come nazione, tanto che oggi realizziamo 125 film all'anno.

Per quanto riguarda la struttura narrativa del film, sono rimasto molto colpito dall'uso dell'ellissi. La costruzione drammaturgica della storia porta lo spettatore a pensare che le cose si metteranno male per Hirut e Meaza, ma poi, proprio all'ultimo momento, succede qualcosa che riapre la strada alla speranza. Vuole dirci qualcosa sulla struttura della sceneggiatura e sul lavoro che ha fatto con le due attrici protagoniste?

All'inizio molte persone che hanno letto la sceneggiatura trovavano fosse poco chiara, perché c'erano due protagoniste. Oppure si preoccupavano del fatto che nel film non ci fosse un chiaro antagonista. Entrambe queste considerazioni nascono ovviamente da un certo modo di concepire la struttura di un film. Ma per me era invece importante fare in modo che lo spettatore partecipasse attivamente al percorso delle protagoniste. Queste due donne, che vengono da due mondi differenti, si trovano a dover affrontare due differenti battaglie. E anche i risultati sono differenti. Meaza sente di aver vinto nel momento in cui riesce a far assolvere Hirut per legittima difesa, ma per Hirut la vittoria ha un sapore dolce e amaro: sì, finalmente è libera, ma non potrà più rivedere la sua famiglia. Dovevo strutturare il film in modo da tenere insieme questi due aspetti contrapposti. Per quanto riguarda il lavoro con le due attrici, il mio approccio è stato quello di lavorare il più possibile con loro sulla sceneggiatura, discutendo ogni scena in relazione alla loro reazione o di qualcuno della loro famiglia. Volevo che affrontassero la storia del film in maniera personale, in modo che scoprissero l'elemento emozionale di ogni scena dal punto di vista del proprio stato mentale o del proprio stile di vita, in opposizione alle parole e alle situazioni della sceneggiatura.

Il film ha avuto la sua anteprima internazionale al Sundance, nel gennaio 2013, e da allora sta ottenendo molto successo nei festival cinematografici di tutto il mondo, come dimostrano i Premi del Pubblico a Park City, ma anche a Berlino, Amsterdam e Montreal. Il film è stato acquistato in diversi mercati, per essere distribuito a livello internazionale. Pensa che la presenza di Angelina Jolie come produttrice esecutiva sia stata decisiva nell'ottenere tutto questo successo, o piuttosto ha funzionato l'interesse internazionale nei confronti del tema della lotta ai matrimoni precoci e forzati?

Non c'è alcun dubbio che la presenza di Angelina Jolie abbia aperto tutte le porte al film. Ma direi anche che l'accoglienza da parte del pubblico e i molteplici premi ricevuti testimoniano, appunto, dell'alto indice di gradimento nei confronti di una tematica universale e anche di una grande performance attoriale.

Nel settembre 2014, invece, la prima ufficiale del film in Etiopia è stata bloccata dalle autorità e il film a quanto pare ha dovuto far fronte a due cause prima di poter essere finalmente distribuito e ottenere, anche a livello locale, il grande successo di pubblico che si merita. Come spiega queste reazioni che hanno ostacolato all'inizio il suo film proprio nel suo paese?

Le cause legali che Difret ha dovuto affrontare nascono dal tentativo organizzato di screditare il lavoro di Meaza proprio in merito al processo che viene ricostruito nel film. Accade molto spesso che gli avvocati dei diritti umani non siano popolari nei paesi dove essi sfidano le tradizioni e i costumi locali, e l'Etiopia non è differente in questo. All'inizio il film è stato vietato, secondo quanto riportato, per aver dato “troppo credito” a Meaza, ma non c'era nessuna valida base legale per questa accusa e così il divieto è stato abolito. In seguito il film è stato distribuito in sala in Etiopia ed ha avuto un grande successo di pubblico, raggiungendo così anche gli obiettivi educativi che si proponeva, ovvero stimolare la presa di coscienza sulla questione dei matrimoni forzati delle bambine.

La parola “difret” in amarico ha molteplici significati: coraggio e capacità di osare, ma anche l'atto di stuprare e disonorare una donna. Ci può spiegare meglio?

L'amarico è una lingua molto complessa, piena di doppi sensi. La parola difret nel suo uso più diffuso significa appunto coraggio, ma nel suo uso secondario può significare anche proprio l'atto di essere violentata. Di questi due significati, credo che il film testimoni maggiormente del primo, ovvero del coraggio che ci vuole per cambiare le tradizioni e i costumi, ed è per questo che ho deciso di chiamare il film Difret.

[Traduzione di Maria Coletti]

Addio a Faten Hamama, icona del cinema egiziano

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Più di 2000 persone, molte delle quali in lacrime, si sono raccolte domenica al Cairo per dire addio all'icona del cinema egiziano, Faten Hamama, morta sabato 17 gennaio all'età di 83 anni.

L'attrice aveva iniziato la sua carriera da bambina, a soli 8 anni, quando apparve per la prima volta sul grande schermo al fianco di un'altra leggenda del cinema egiziano, il musicista Mohammed Abdel Wahab, nel film Yawm Said (Happy Day, 1939).

Apparsa in centinaia di film, Faten Hamama incarna l'età dell'oro del cinema egiziano ed ha lavorato con i più grandi maestri, come Youssef Chahine. Prima degli anni Cinquanta, ha spesso interpretato il ruolo della giovane debole, povera e innocente. Poi, con l'orientamento del cinema egiziano verso un maggiore realismo, Hamama ha interpretato eroine forti e più vicine alla realtà e alle questioni contemporanee.

La sua carriera ha raggiunto l'apice soprattutto tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, periodo in cui interpreta commedie romantiche, spesso accanto al celebre cantante Abdel Halim Hafez, ma anche film impegnati, che denunciavano le disuguaglianze sociali o che difendevano i diritti delle donne.
Il suo film Oridu Hallan (I Want a Solution, 1975), ad esempio, che celebrava la lotta di una donna per ottenere il divorzio dal marito, contribuì a portare a una revisione della legislazione in materia di diritto di famiglia, che permise alle donne di chiedere il divorzio.

Non si può evocare la carriera di Faten Hamama senza pensare a quella di un'altra grande star del cinema egiziano e non solo, Omar Sharif, con cui ha condiviso innumerevoli volte lo schermo e che è stato il suo secondo marito.
I due attori si sono conosciuti nel 1954, sul set di Sira' Fi Al-Wadi (Struggle in the Valley) di Youssef Chahine, che fu presentato al Festival di Cannes. Faten, già celebre, era allora sposata con il regista egiziano Ezzedine Zoulfocara. Tra Faten e il giovane protagonista, che si chiamava allora Michel Shalhoub, fu amore a prima vista: per sposarla, l'attore si convertì all'islam e prese il nome di Omar Sharif.

Hamama e Sharif sono stati i romantici protagonisti di film come Ayyamna Al-Holwa (Our Sweet Days, 1955), Ardh Al-Salam (Land of Peace, 1957), La Anam (Sleepless, 1957), Sayyidat Al-Qasr (The Lady of the Palace, 1958), mentre il loro ultimo film insieme, prima della separazione nel 1966 e del divorzio nel 1974, è stato Nahr Al-Hob (The River of Love) nel 1960.

Per ricordarla, condividiamo una bella intervista al Festival di Beirut del 1964.

Faten Hamama Interview 1964 (لقاءنادرمعالفنانةفاتنحمامة١٩٦٤) from cinematic masry on Vimeo.

Oscar 2015 con Selma e Timbuktu

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Sono state da poco presentate le nomination agli 87esimi Academy Awards: i vincitori saranno annunciati durante la cerimonia di attribuzione degli Oscar che si svolgerà il prossimo 22 febbraio.

Delusione per l'accreditatissimo Selma che comunque è in lizza con due candidature agli Oscar, per il Miglior Film e per la Miglior Canzone, e che, diretto dall'afroamericana Ava DuVernay, uscirà nelle sale italiane il 12 febbraio.
Ambientato negli Stati Uniti durante la presidenza Johnson, il film racconta la marcia di protesta che ebbe luogo nel 1965 a Selma, Alabama. Guidata da un agguerrito Martin Luther King, questa contestazione pacifica aveva lo scopo di ribellarsi agli abusi subiti dai cittadini afroamericani negli Stati Uniti e proprio per la sua natura rivoluzionaria venne repressa nel sangue.

Grande soddisfazione invece per la nomination all'Oscar come Miglior Film Straniero a Timbuktu (Mauritania), l'ultima struggente opera di Abderrahmane Sissako, presentato all'ultimo festival di Cannes e speriamo finalmente in uscita anche nelle sale italiane.
Nel film, non lontano da Timbuktu, governato da religiosi estremisti, Kidane conduce una vita pacifica tra le dune, circondato da sua moglie e i suoi figli. In città la gente soffre il potente regime di terrore imposto dai Jihadisti. Le donne sono diventate ombre che cercano di resistere con dignità. Kidane e la sua famiglia sembrano sono stati risparmiati dal caos che regna in città. Ma il loro destino cambierà quando Kidane uccide accidentalmente Amadou, il pescatore che massacrò GPS, la sua amata mucca. Ora dovrà far fronte alle nuove leggi degli occupanti stranieri.

Al link qui sotto potete leggere la nostra recensione di Timbuktu dal Festival di Cannes:
http://www.cinemafrica.org/spip.php?article1467

[Maria Coletti]

Sundance 15. Una torta con poche candeline nere

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Al via l'attesissima edizione del trentennale, diretta per il quinto anno da John Cooper. Il Sundance Film Festival, vetrina di riferimento per il cinema indipendente statunitense e per i filmmaker emergenti di tutto il mondo, anche quest'anno offre nel suo ricchissimo menu diverse portate di notevole interesse per i palati degli affezionati alle culture nere, ma forse nel suo insieme questa offerta è inferiore a quanto si era visto nelle ultime edizioni. Chissà se anche in questo caso, dopo il casus belli della mancata nomination alla regia per Ava DuVernay, si parlerà di “stanchezza nei confronti della razza”?

Per i cineasti africani di nascita e residenza Park City è sempre stata terra di conquista durissima e anche quest'anno non fa eccezione. Il cuore degli africani presenti batterà sicuramente per Sembene! (concorso World Documentaries), il documentario dedicato da Samba Gadjigo all'anziano degli anziani Sembene Ousmane, che ha attraversato da protagonista – talvolta ingombrante, ma sempre sorprendente – l'intera storia fino al passato anche prossimo del “cinema africano”, partendo da un umile villaggio della Casamance e passando per il porto di Marsiglia e lo Studio Gorki di Mosca. Ma c'è grande attesa anche per l'opera seconda di Kivu Ruhorahoza, 33enne regista ruandese che quattro anni fa stregò il Tribeca e il meglio dei festival indipendenti con il suo esordio Grey Matter: Things of the Aimsless Wanderer (New Frontier) tesse un intreccio misterioso di tre incontri fra uomini di potere e donne ruandesi che sembra alludere a un presente ancora tormentato per il paese delle mille colline.

Nel panorama dei registi afrodiscendenti, un posto nella più ambita sezione competitiva, la US Dramatic, è riuscito a conquistarlo solo il 41enne di origini nigeriane e diplomato in cinema al USC Rick Fawuyiwa (Matrimonio in famiglia). Si tratta di un riconoscimento importante, al quarto film da regista (oltre a Talk to me, co-scritto, per la regia di Kasi Lemmons), che arriva con la benedizione del produttore Forest Whitaker: Dope viene presentato come un brillante spaccato della vita di un ragazzotto nero di un quartiere difficile, cresciuto nel culto dell'hip hop anni Novanta ma che sogna Harvard e si ritrova invece invitato alla festa di compleanno di uno spacciatore. Anche Cronies, selezionato nella sezione low budget NEXT, si presenta con un executive d'assalto come Spike Lee: a scrivere e dirigere è Michael Larnell, al suo secondo lavoro, con una storia d'amicizia tra due ragazzi alla vigilia di un giorno d'estate che cambierà le loro vite.
Davanti alla macchina da presa, da seguire Chiwetel Ejiofor (12 anni schiavo), co-star di un thriller postatomico, Z for Zachariah, in concorso per la sezione regina e Viola Davis (The Help), coprotagonista di Lila and Eve (Premieres), sull'amicizia di due donne unite dall'aver perso il figlio in un fatto di cronaca nera.

Nella varie sezioni dedicate alla non-fiction, si guarda soprattutto a storie, personaggi, miti dell'identità storica nera. Fra i registi black, il veterano e pluripremiato Stanley Nelson jr. (Freedom Riders, 2011), torna al Sundance con un ritratto del Black Panther Party for Self Defense, immerso nell'America caldissima degli anni Sessanta e arricchito da testimonianze inedite (The Black Panther: Vanguard of the Revolution). Con Sacha Jenkins e il suo Fresh Dressed restiamo nel mondo della sottocultura giovanile black, ma arriviamo agli anni dell'hip hop e alla nascita di un look come il Fresh che, in condizioni completamente cambiate, viene presentato come una strategia di conquista del mainstream.

Porta la firma pesante di Liz Garbus (nominata due volte agli Oscar) il ritratto a tutto tondo della “sacerdotessa del soul” Nina Simone (What Happened, Miss Simone?), tra ambizione artistica e impegno politico per i diritti civili dei neri, lungo un tormentato itinerario che l'avrebbe portata ad autoesiliarsi prima in Liberia e poi in Francia. Non meno importante il background dell'inglese Kim Longinotto, che ricordiamo per un bellissimo documentario presentato a Cannes nel 2005 (Sisters in Law) ma ha alle spalle una carriera quasi quarantennale di regia documentaria: Dreamcatcher (concorso World Documentaries) è il suo omaggio alla tenacia di Brenda, una donna dal passato di prostituta e tossicodipendente, che ha scelto di dedicarsi alla cura e al recupero delle sex workers di Chicago, alle prese con storie di abusi, violenze e silenzi difficili da rompere.
Farà infine sicuramente discutere 3 ½ Minutes di Marc Silver, che compete nella US Documentary, con la cronaca giudiziaria di un omicidio a sfondo razziale con aggravante per futili motivi consumatosi tre anni fa nel parcheggio di un distributore, vittima un ragazzino nero incensurato, colpevole di divertirsi con suoi tre amici e di aver risposto alle provocazioni di un bianco.

Césars 2015: 8 nominations per Timbuktu

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Sono stati annunciati tutti i film candidati ai Césars, gli Oscar francesi, che verranno consegnati nella cerimonia che si svolgerà il prossimo 20 febbraio 2015 al Théatre du Chatelet di Parigi, sotto l'egida di Dany Boon nominato presidente della 40ma cerimonia dei Césars.
Un'edizione dei Cèsars, a cominciare dalla scelta di Dany Boon come presidente, in cui hanno un grande peso i film e i cineasti afrodiscendenti.

A cominciare dall'ultimo film di Abderrahmane Sissako, Timbuktu, che è il coup de coeur di Cinemafrica e che è in lizza con ben 8 candidature, per fotografia, montaggio, suono, scenografia, musica originale, sceneggiatura originale, miglior film e miglior regista.

Grande spazio anche a un altro film che noi di Cinemafrica abbiamo molto amato, Bande de filles della regista Céline Sciamma, con 4 candidature, per suono, musica originale, miglior regista e migliore promessa femminile (Karidjia Touré).

Ecco, di seguito, le altre candidature da tenere d'occhio.

Per il miglior film documentario:
La cour de Babel di di Julie Bertuccelli

Per il miglior cortometraggio:
Aïssa di Clément Thréhin-Lalanne
Les Jours d'avant di Karim Moussaoui
La virée à Paname di Carine May, Hakim Zouhani

Migliore attrice non protagonista:
Izia Higelin dans Samba di Olivier Nakache, Eric Toledano (ed è strano che in questo ennesimo film della coppia Nakache/Toledano la star Omar Sy sia stata snobbata dai Césars, ma tant'è...)

Migliore promessa maschile:
Ahmed Dramé per il film Les Héritiers di Marie-Castille Mention-Schaar
Marc Zinga per il film Qu'Allah bénisse la France di Abd Al Malik

Migliore opera prima:
Qu'Allah bénisse la France di Abd Al Malik

[Maria Coletti]


Dear White People

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Si sono appena chiusi i battenti dell'edizione del trentennale ed è presto per capire se Dope o altri film black presentati nelle altre sezioni potranno ripetere i fortunati exploit registrati negli ultimi anni da registi come Lee Daniels, Ava DuVernay o Ryan Coogler. Approfittiamo dell'attenzione che colpisce la kermesse di Park City per spendere una recensione sul vero film-caso dell'edizione 2014, Dear White People, dell'esordiente Justin Simien.
31enne texano di Houston, gay dichiarato, Simien viene da studi di cinema alla californiana e perlopiù bianca Chapman University e da una serie di esperienze nella comunicazione per diverse major. Dear White Peopleè anzitutto un capolavoro di tenacia: il progetto parte dal 2006 e viene affinato negli anni, mentre Simien chiude tre corti fra il 2006 e il 2009. Nel giugno 2012 Simien lancia su Indiegogo una campagna di crowdfunding con un concept trailer del film e polverizza gli introiti attesi, portandosi a casa oltre 40 mila dollari. È l'inizio di una storia fortunata per Simien, che vince il premio di Indiegogo come autore del progetto dell'anno, viene invitato dal Tribeca a partecipare agli incontri dell'industry e apre trionfalmente al Sundance 2014 (Special Jury Prize). Distribuito dal 17 ottobre in un'uscita limitata e da poco disponibile anche in homevideo, il film ha finora incassato 4 milioni e 400 mila dollari, record assoluto per un film prodotto anche grazie al crowdfunding.

Ma cos'è che ha tanto colpito pubblico e critica USA in questa commedia frizzante e non riconciliata, che sembra ricollegarsi al filone dei college movie come Animal House e School Daze? Partiamo dal plot, ambientato nella bianca e fittizia Winchester University. Sui titoli vediamo alcuni studenti ascoltare una tv locale mentre riferisce sui violenti scontri accaduti in università tra membri di diverse confraternite. Da qui parte un lungo flashback che ricostruisce a ritroso quanto accaduto negli ultimi mesi al campus. Uno dei punti di vista su cui insiste il film è quello di Lionel Higgins (Tyler James William), una matricola gay che si trova subito a disagio nell'unica confraternita nera del college - a rischio di chiusura perché considerata poco utile nell'America postrazziale di Obama - e si unisce a alcuni colleghi che curano un giornale interno, subito incaricato di seguire l'ultimo caso scottante in fatto di razza.

Il casus belli è Sam White (Tessa Thompson), una brillante e tosta studentessa, giornalista e animatrice di radio, che grazie a una fortunata trasmissione (Dear White People) e a una piattaforma radicale e che denuncia le discriminazioni tuttora subite dagli studenti neri, riesce a vincere l'ambita carica di capo della confraternita, sconfiggendo per giunta l'ex fidanzato Troy (Brandon P. Bell), figlio del rettore nero (Dennis Haysbert, il Nelson Mandela de Il colore della libertà). Senonché le cose si mettono male, quando malsopportando l'ascendente di cui gode Sam, il figlio del presidente del college, decide di organizzare una festa della sua confraternita a tema hip hop, con tanto di ospiti in blackface che rifanno il verso a rapper e gangster da ghetto movie.

Nonostante il crescente interesse di Hollywood per i film orientati a un pubblico nero, spesso diretti o sceneggiati da autori bianchi mainstream o meno, da Tarantino a Tate Taylor, la fascia giovanile e più sensibile alla politica dell'identità rimane stanca tanto delle produzioni che fanno presa sulle star nere per arricchire i forzieri delle majors quanto degli indipendenti come Tyler Perry che per colpire al bersaglio grosso ricorrono a una comicità greve e sessista.
Simien appartiene a una nuova generazione di cineasti indie abili nell'utilizzo delle risorse dell'attuale mercato, ma ha anche le idee chiare su come superare lo iato tra circuiti mainstream e art-house, usando i registri della commedia per formulare domande scomode.

Allo stesso tempo, Dear White People, che esibisce attraverso una retorica filmica scattante e frammentaria, e alcuni espedienti di autoriflessività (Sam studia cinema e lavora in parallelo tra la radio e la realizzazione di alcuni corti) la sua dimensione antinaturalistica, si tiene lontano da scorciatoie o morali posticce. Lo spettatore rimane a interrogarsi sulle varie forme di razzismo che ancora dominano la società americana e sulle risposte antiegemoniche e creative che l'arte e i media digitali possono offrire alle ultime generazioni nere, dentro e fuori l'università.

Leonardo De Franceschi

Dear White People
Regia: Justin Simien; sceneggiatura: Justin Simien; fotografia: Topher Osborn; musiche: Kathryn Bostic; montaggio: Phillip J. Bartell; scenografia: Bruton Jones; costumi: Toye Adedipe; interpreti: Tyler James Williams, Tessa Thompson, Teyonah Parris, Brandon P. Bell, Kyle Gallner, Brittany Curran, Dennis Haysbert, Marque Richardson; origine: USA, 2014; formato: HD colore; durata: 108'; produzione: Code Red, Duly Noted, Homegrown Pictures; distribuzione internazionale: Oscilloscope Laboratories; sito ufficiale: dearwhitepeoplemovie.com

Timbuktu in sala dal 12 febbraio

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Presentato all'ultimo Festival di Cannes, candidato agli Oscar come Miglior film straniero e ai Cèsars con ben 8 nominations: stiamo parlando del film Timbuktu del regista Abderrahmane Sissako, che esce finalmente nelle sale italiane dal prossimo 12 febbraio, distribuito da Academy Two.
Un appuntamento cinematografico da non perdere.

Ecco il link al trailer italiano del film:
http://www.youtube.com/watch?v=ZvZNg4R-yUg

Ma speriamo che esca in sala anche in versione originale con i sottotitoli.

[Maria Coletti]

Sul libro d'oro del Sundance

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Chiusa l'edizione del trentennale con la consegna dei premi, che in qualche caso hanno toccato anche film di registi afrodiasporici o comunque con tematiche di interesse per noi. Dope di Rick Famuyiwa, presentato in concorso nella sezione principe e che promette di far bene al box office, ha avuto un Premio Speciale della Giuria nella sua sezione (U.S. Dramatic) per il montaggio, firmato da Lee Haugen.

Com'era lecito attendersi, il documentario 3 1/4 minutes di Marc Silver, che ricostruisce il fatto di cronaca di un omicidio a sfondo razziale per futili motivi, non ha mancato di colpire la giuria della sezione U.S. Documentary, che gli ha tributato uno Special Jury Award per l'Impatto Sociale.

Molto apprezzato anche il ritratto di una donna coraggio che fa assistenza di strada alle prostitute di Chicago, in Dreamcatcher, opera della documentarista inglese Kim Longinotto. Il film è stato premiato per la regia.

[Leonardo De Franceschi]

Non sposate le mie figlie, dal 5 febbraio

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Non sposate le mie figlie (titolo originale: Qu'est-ce que on a fait au bon Dieu) del regista francese Philippe de Chauveron esce in sala in Italia dal 5 febbraio per la 01.
Sull'onda degli scorsi successi commerciali all'insegna del politically "scorrect" e delle commedie sull'integrazione - pensiamo a titoli come Agathe Cléry o Intouchables (Quasi amici) - arriva dalla Francia un altro tourbillon di stereotipi sulla "grande illusione" dell'integrazione, che ha incassato in patria più di dieci milioni di biglietti in sole 12 settimane di programmazione.
In attesa di vederlo e recensirlo, siamo un poco allibiti di fronte al condensato di luoghi comuni che traspare dal trailer del film:
https://www.youtube.com/watch?v=u5NB5yBRuMo
Sempre nell'attesa di vederlo, condividiamo la recensione fatta per Africulture dal critico francese Olivier Barlet:
http://www.africultures.com/php/?nav=article&no=12185

[Maria Coletti]

Berlinale 2015: talenti africani del presente

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Inizia oggi la 65ma edizione del Festival di Berlino, uno dei festival cinematografici internazionali dall'aria più cosmopolita e in grado di attrarre e valorizzare i talenti cinematografici provenienti da ogni angolo di mondo e sempre più attento anche alle cinematografie africane o diasporiche.
Anche quest'anno dunque il festival si annuncia interessante per chi, come noi di Cinemafrica, segue il destino e l'evoluzione del cinema degli autori contemporanei africani.

Innanzitutto salutiamo con gioia e curiosità il ritorno del sudafricano Mark Dornford-May, Orso d'Oro a Berlino nel 2005 per il suo U-Carmen eKhayelitsha, brillante adattamento della Carmen di Bizet: ci riprova con l'Opera, stavolta con Puccini, presentando in proiezione speciale, in compagnia della moglie Pauline Malefane (la protagonista di U-Carmen), il film Breathe Umphefumlo (La Bohème). Girato in lingua xhosa, il film segue il destino maledetto dei due amanti interpretati da Busisiwe Ngejane e Mhlekazi Mosiea.

Due film da tenere d'occhio anche nella sezione Panorama.
Sempre dal Sudafrica, il regista Sibs Shongwe-La Mer, scoperto nell'atelier di post produzione del progetto Final Cut di Venezia 2013 e poi nel programma Open Doors di Locarno 2014, che sarà in concorso con la sua opera prima Necktie Youth, sul malessere della gioventù sudafricana post apartheid.
Sempre in Panorama, un altro grande ritorno: il regista marocchino Hicham Lasri, che si è imposto internazionalmente con lo sguardo sovversivo sulla società marocchina dimostrato nei primi due film (The End e C'est eux les chiens), presenta a Berlino il suo terzo lungometraggio. Anche con Al Bahr Min Ouaraikoum (The Sea Is Behind) a quanto pare il regista non ha paura di far saltare tutti i codici (cinematografici e non) e racconta il percorso struggente di un uomo, spezzato dalla vita, che si guadagna da vivere travestito da donna.

Selezionato in Panorama, ma in lizza anche per il Teddy Award– il più importante riconoscimento internazionale attribuito a un film sui diritti LGBT – da non perdere il film del keniota Jim Chuchu, del collettivo The Nest: Stories of Our Lives sulla vita di omosessuali e lesbiche in Kenya è stato acclamato a Toronto nel settembre 2014, ma ha causato l'arresto del produttore George Gachara e la messa a bando del film dalle autorità keniote.

Ancora un regista sudafricano presente in cartellone, nella sezione Generation 14plus: parliamo di Teboho Edkins con il suo Coming of Age, che racconta la vita di un gruppo di adolescenti in un villaggio isolato del Lesotho e che era stato premiato nel programma Open Doors del Festival di Locarno 2014.

Infine, troviamo diversi titoli interessanti di autori africani nella sezione Forum Expanded.
Iniziamo con il camerunese Jean Pierre-Bekolo, tra i più visionari e combattivi della sua generazione, che presenta Les Choses et les mots de Mudimbe, sul filosofo congolese Valentin-Yves Mudimbe.
Dall'Egitto arrivano invece tre produzioni di giovani cineasti: Barra Fel Share' (Out on the Street) di Jasmina Metwaly e Philip Rizk; Acapella di Islam Safiyyudin Mohamed; Wa Ala Saeeden Akhar (And on a Different Note) di Mohammad Shawky Hassan.

Sempre in Forum Expanded, troviamo infine tre titoli da Burkina Faso, Uganda e Sudafrica.
Il regista burkinabè Michel K. Zongo (La sirène de Faso Fani) analizza e spiega il declino della lavorazione del cotone nel suo paese, che era stato invece uno dei perni della rivoluzione di Thomas Sankara.
Il collettivo ugandese Yes ! That's Us si interessa alla condizione dei moto-taxi di Kampala (chiamati “Boda Boda”), nel film The Boda Boda Thieves [nella foto], un dichiarato omaggio al neorealista Ladri di biciclette.
Il sudafricano Mpumelelo Mcata presenta invece con il suo Black President, una riflessione sul rapporto fra gli artisti africani e il mondo globalizzato attraverso il ritratto dell'artista del Zimbabwe Kudzanai Chiurai.

Per informazioni più dettagliate sui film e sul programma, rimandiamo al sito ufficiale del festival :
https://www.berlinale.de/en/HomePage.html

Per chi legge il francese, rimandiamo anche all'approfondita presentazione di Claire Diao su Le Monde:
http://www.lemonde.fr/afrique/article/2015/01/30/berlinale-2015-afrique-nouvelle-generation_4567104_3212.html

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