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Channel: CINEMAFRICA | Africa e diaspore nel cinema
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Profumi d'Algeri al Nuovo Cinema Aquila

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Giunge al Nuovo Cinema Aquila in esclusiva romana l'ultima pellicola di Rachid Benhadj, regista algerino attivo da molti anni nel nostro paese, che ci regala con Profumi d'Algeri uno sguardo drammatico sulla condizione femminile nel suo paese.
Il film sarà in programmazione al Nuovo Cinema Aquila dal 21 al 27 Maggio.

SINOSSI
Karima è una fotografa algerina affermata, che vive in Francia e ha chiuso ogni contatto con il suo paese d'origine e la sua famiglia. Mentre festeggia l'ultimo successo, una telefonata della madre la richiama urgentemente a fare i conti col passato. Suo fratello Murad, infatti, è in prigione con l'accusa di terrorismo e solo il suo intervento potrà salvarlo dalla condanna a morte. Karima parte dunque per Algeri e per un viaggio doloroso nella realtà di violenza e sottomissione che pensava di essersi lasciata alle spalle.

[Maria Coletti]


Su Youtube videointervista a Joy Nwosu

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Ecco la videointervista che la stessa Joy Nwosu Lo-Bamijoko ha realizzato a Los Angeles nel maggio 2015, solo alcuni giorni fa, appositamente per accompagnare la prima presentazione ufficiale del suo libro "Cinema e Africa. L'immagine dei neri nel cinema bianco e il primo cinema africano visti nel 1968" (Aracne editrice, 2014). I sottotitoli sono a cura di Leonardo De Franceschi.
La presentazione ha avuto luogo a Milano domenica 18 maggio 2015, alle ore 18, presso la Casa del Pane in Porta Venezia.

Il volume è il secondo della collana Studi postcoloniali di cinema e media (Postcolonial Film and Media Studies) a cura di Leonardo De Franceschi.

Qui il link a Youtube: https://www.youtube.com/watch?v=mOPbWlhFnmc&feature=youtu.be

[Maria Coletti]

Cannes 68. Mediterranea

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Opera prima di Jonas Carpignano, 31enne newyorchese di madre eritrea naturalizzata americana e padre italiano, formatosi ai laboratori di regia del Sundance, Mediterranea ha una storia che parte da lontano. Gli eventi che narra ruotano intorno alla storica rivolta dei braccianti africani di Rosarno, avvenuta nel gennaio 2010, già raccontata in chiave non fiction da Andrea Segre ne Il sangue verde (2010). Cresciuto fra Roma e il Bronx, Carpignano si è documentato diversi mesi, durante l'estate del 2010, condividendo per qualche tempo le condizioni di vita estreme dei lavoratori della piana, prima di realizzare un primo cortometraggio, A Chjana (2012), risultato in seguito vincitore della sezione Controcampo della Mostra di Venezia, incentrato sulle vicende di un giovane migrante burkinabè, Ayiva (Koudous Seihon). Tre anni dopo a Cannes, ha continuato a indagare la terra calabra, seguendo le tracce di un ragazzino rom, Pio Amato, che si ritrova a crescere in fretta in una società violenta. Anche in A Ciambra (2014), che gli è valso il Prix Découverte Sony CineAlta alla Semaine de la Critique, Carpignano ha continuato a costruire un microracconto centrato sul giovane bracciante burkinabè. Con Mediterranea, l'odissea di Ayiva trova un respiro più ampio ma anche qui intorno a lui gravita tutto un mondo di presenze già introdotte dai precedenti film, come lo stesso Pio, e un'anziana donna del luogo che tutti chiamano Mamma Africa (Norina Ventre) perché offre pasti caldi e soprattutto una vicinanza affettiva preziosa a tanti ragazzi africani abbandonati al loro destino.

Mediterranea segue dunque le vicende del giovane Ayiva , diretto insieme al fratello minore Abas (Alassane Sy) in Italia. La prima mezz'ora del film sintetizza le tappe brutali del loro itinerario attraverso il deserto e il mare, dall'Algeria alla Sicilia, passando per la Libia. Bastano pochi episodi per delineare le differenze di carattere: Ayiva , che si è lasciato alle spalle una figlia di sette anni, ha un grande spirito di adattamento e una fortissima determinazione, che lo spinge ad approfittare delle pause nel viaggio per vendere scarpe e farsi avanti nei momenti di difficoltà - come quando i trafficanti chiedono a uno della carovana di improvvisarsi scafista, mentre Abas è attratto dalle ragazze ed appare molto meno propenso al sacrificio. I due ragazzi si ritrovano a Rosarno scossi dall'esperienza del viaggio, con in tasca solo un biglietto che reca l'indirizzo dello zio Ousmane. L'arrivo non è meno traumatico, visto che i due, nonostante la solidarietà degli altri braccianti, si ritrovano a dormire sotto una tenda di plastica, in una baraccopoli alle porte del paese. L'ostilità della gente del luogo, poi, specie dei ragazzi, che si intuisce affiliati alla 'ndrangheta, è un elemento costante.

Con i giorni, tuttavia, Ayiva riesce a costruirsi una rete di contatti, che fa perno su un ragazzino del posto, Pio (Pio Amato), dedito a piccoli traffici, e a un giovane marocchino, Mehdi (Zkaria Kbiri), anche lui abile nel contrabbando e nella ricettazione. Con la sua disponibilità ad accettare sempre lavoretti extra, anche dopo una giornata massacrante a raccogliere arance, Ayiva si fa ben volere da una famiglia di possidenti della zona, il cui capo (con alle spalle una storia di emigrazione italiana negli States) gestisce un piccolo impianto di raccolta per la spremitura delle arance ed ha una figlia preadolescente dal carattere scostante, Marta (Vincenzina Siciliano) la cui frequentazione rende meno acuta la lontananza dalla figlia, che al villaggio viene cresciuta dalla sorella minore di Ayiva, Aseta. Dal canto suo, Abas si lega a una ragazza nigeriana gestita da un clan e si trova così a conoscere direttamente la situazione di sfruttamento e degrado in cui lei vive insieme a tante altre, usate, ostracizzate dai rosarnesi e sgombrate regolarmente dalla polizia. Proprio il legame con la ragazza sarà all'origine del suo coinvolgimento nella rivolta. Nonostante la diversità di carattere, entrambi si trovano con una spranga in mano e l'urgenza di far sentire la propria voce davanti a una realtà che non lascia loro nessun margine di aspettativa, se non la routine di un lavoro da schiavi, la minaccia costante dei ragazzi del luogo e la pressione della famiglia al villaggio.

Mediterranea si inscrive in una genealogia di narrazioni ben consolidata nel cinema italiano, nonostante il background transnazionale di Carpignano. Il regista e sceneggiatore nelle interviste fa professione di fedeltà alla matrice neorealista e questa filiazione traspare visibilmente nelle scelte di messinscena, dalle location reali (anche se per ragioni di sicurezza le sequenze nel deserto sono state girate nel sud del Marocco) all'uso di interpreti non professionisti. Il film intrattiene inevitabilmente anche dei debiti nei confronti del filone del “cinema italiano dell'immigrazione”, ma Carpignano si tiene alla larga dai didascalismi e dalle rigidità di Placido e De Seta, votandosi a un punto di vista interno come il Lombardi di Là-bas. Educazione criminale e attenendosi a un regime fenomenologico di narrazione del quotidiano che poco concede a divagazioni di genere o digressioni lirico-paesaggistiche (o asprezze da pamphlet movie) alla Segre. Pur consapevole delle molte insidie insite nel soggetto, il regista riesce a tessere una drammaturgia emozionale sottile, che passa per lo sguardo mobile di Ayiva ma incrocia anche le ragioni e gli umori di una platea piuttosto ampia e plurale di soggetti.

Visibilmente, Carpignano rimane alieno a una prospettiva di cinema di denuncia sociologica e rifugge con felice equilibrio il ricorso a un'elementare mozione degli affetti. Alla lunga, il nodo più toccante sul piano drammaturgico è quello della relazione tra Ayiva e la figlia Zeina, che passa per la doppia mediazione della sorella Aseta e di Marta, la figlia del padrone che gli sorride, mentre per sfregio gli rovescia le cassette di arance. Come in Bande de filles di Sciamma, uno dei nodi più potenti a livello di immaginario passa per una canzone di Rihanna, S&M: per Ayiva è forse solo una suoneria, per una delle ragazze nigeriane del gruppo significa il rinvio a una “sorella” che ce l'ha fatta, per la piccola Zeina il miraggio di un'altrove irresistibile, che lascia immaginare nuovi viaggi e nuove disillusioni. La sequenza della videochiamata Skype, con l'inevitabile cornice metadiscorsiva che instaura, produce un cortocircuito da brividi.

Il regime di scrittura di Carpignano è improntato a una micronarrazione in presa diretta, macchina a mano e piani serrati, tutta “dentro le cose” e agganciata allo sguardo acuto e flessibile di Ayiva (Koudous Seihon). L'incastro fra micro e macrostoria e quindi il rimando alla rivolta di Rosarno è risolto senza passaggi didascalici, cartelli o innesti metatestuali (se si esclude il rapido e funzionale passaggio audio di un notiziario). Carpignano riesce a scolpire i caratteri, superando la dimensione del bozzetto sociologico, ritagliandosi dei margini preziosi di straniamento drammaturgico grazie soprattutto al parco ma efficace ricorso a uno score dai colori acidi e dissonanti (le musiche sono di Dan Romer, autore già della partitura di Re della terra selvaggia) e di una fotografia (Wyatt Garfield) apparentemente “di servizio” ma sempre figurativamente densa e con dei passaggi folgoranti come il finale della festa e soprattutto la sequenza della traversata da tregenda, illuminata a squarci da un temporale notturno che sembra ingoiare uomini e cose. Un debutto che lascia il segno dunque, e che lascia ben sperare sull'avvento di una nuova generazione di cineasti, come Segre e Lombardi, attenti a declinare uno sguardo in prima persona su un'Italia plurale, postcoloniale, in cui ci si possa finalmente riconoscere, e in più l'atout di una libertà produttiva da guerrilla filmmaker, indipendente sul serio, in grado di tessere una compagine produttiva importante senza rimanere schiacciato dalle attenzioni interessate dei partner. AAA cercasi distributore serio, esclusi perditempo.

Leonardo De Franceschi | 68. Festival de Cannes

Mediterranea
Regia: Jonas Carpignano; sceneggiatura: Jonas Carpignano; musica: Dan Romer; fotografia: Wyatt Garfield; montaggio: Sanabel Cherqaoui, Affonso Gonçalves, Nico Leunen; scenografia: Alan Lampert, Paolo Nanni; costumi: Nicoletta Taranta; suono: Nicolas Becker; interpreti: Koudous Seihon, Alassane Sy, Vincenzina Siciliano, Francesco Papasergio, Aisha, Pio Amato, Fallou Fall, Mary Elizabeth Innocence, Annalisa Pagano; origine: Italia, Francia, USA, Germania, Qatar, 2015; durata: 87'; produzione: Jon Coplon, Gwyn Sannia, Jason Michael Berman, Chris Columbus, Christoph Daniel, Andrew Kortschak, John Lesher, Ryan Lough, Justin Nappi, Alain Peyrollaz, Marc Schmidheiny, Victor Shapiro, Ryan Zacarias, per Audax Films, Court 13 Pictures, DCM Productions, Good Lap Production, Grisbi Productions, Le Maiden Voyage Pictures, Nomadic Independence Pictures, Sunset Junction Entertainment, TideRock Media, Treehouse Pictures.

FCAAAL 25: Concorso cortometraggi africani

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Una delle sezioni più interessanti della 25° edizione del Festival del Cinema Africano, d'Asia e d'America Latina è stata quella dedicata al Concorso Cortometraggi Africani, competizione interamente rivolta a opere di registi provenienti dall'Africa. I giovani autori, spesso al loro film d'esordio, ci offrono uno sguardo nuovo e sperimentale sulle cinematografie del continente. Dieci sono stati i cortometraggi presentati, sei provenienti dal nord Africa (Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco), tre dall'Africa subsahariana e australe (Burkina Faso, Angola, Sudafrica) e uno dall'isola di Guadalupa.

Quest'ultimo, 4 Avril 1968 (Myriam Gharbi, Francia, Guadalupa - nella foto), unico cortometraggio in concorso realizzato da una regista donna, Myriam Gharbi, si è aggiudicato il premio come Miglior Cortometraggio Africano. Il film, già presentato alla Quinzaine des Réalisateurs 2014, è il racconto di una bambina, Sabine, che per allontanarsi dal severo ambiente familiare (vive con la zia e la cugina perché i suoi genitori sono emigrati in Francia per lavoro) si addentra nella foresta dove incontra due giovani Black Panthers rifugiatesi nell'isola. È il 4 aprile 1968, Martin Luther King viene assassinato e Sabine si ritrova a condividere il dolore e l'orgoglio di essere neri. Con delicatezza Myriam Gharbi si avvicina ai personaggi, lascia che siano i corpi a parlare, i gesti spontanei, i dialoghi semplici. La battaglia per i diritti civili (oggi più che mai attuale), letta dal punto di vista della bambina, investe i suoi sogni per divenire strumento e punto di partenza nella costruzione di un futuro diverso.

Il Premio CINIT e il Premio CEM-Mondialitàè stato assegnato invece a The Dream of a Scene (Yasser Shafiey, Egitto), cortometraggio che mette in scena, attraverso la modalità metafilmica, in un gioco di rimandi continui tra documentario e fiction, la realizzazione di un film sulla rasatura dei capelli come simbolo dell'emancipazione femminile. La forza dell'opera risiede nello scomporre i momenti del taglio dei capelli: ad ogni sforbiciata in un luogo pubblico corrisponde una presa di coscienza e un gesto di libertà. La libertà di essere al di là dell'approvazione di una società patriarcale che, imponendo codici estetici e comportamentali, controlla ancora il corpo della donna.

Père (Lofti Achour, Tunisia, Francia), Premio Sunugal, è una riflessione sulla paternità al di là della biologia. Un tassista, Heidi, accompagna in ospedale una giovane donna che sta per partorire. La ragazza essendo sola cerca di affidare la paternità del bambino al tassista ignaro. Ma durante gli accertamenti medici Heidi scopre di essere sterile e di non essere di conseguenza il padre dei suoi due figli. Père diviene così un luogo di discussione sull'essere genitori, sulle responsabilità individuali e collettive nei confronti dei bambini e sulla costruzione del rapporto padre-figlio.

L'ultimo premio assegnato a un cortometraggio africano è il Premio Arnone-Bellavite Pellegrini Foundation che è andato a Lazy Susan (Michael MacGarry, Sudafrica). Girato dal punto di vista di un vassoio girevole sul tavolo di un ristorante (Lazy Susan appunto), il film mostra il lavoro quotidiano di una cameriera che serve cordialmente clienti di ogni sorta, hipster innamorati dei loro smartphone e donne sole, wash e taccagni. Ma la sorte si fa beffa di lei. Grazie all'espediente del vassoio il film si concede un'incursione sociale nella variegata Città del Capo con toni leggeri e caustici, da commedia nera.

L'altro cortometraggio realizzato da un regista sudafricano èExcuse me While I Disappear (Michael MacGarry, Sudafrica, Angola). Il film è interamente girato a Kilamba Kiaxi, la nuova città costruita interamente dalla corporazione cinese CITIC nella periferia di Luanda, il più grande investimento cinese in Angola in cambio di petrolio greggio. La città, in parte disabitata, si sviluppa secondo linee geometriche razionaliste, chilometri di strade attraversano palazzi, scuole, centri commerciali tutti rigorosamente circondati da aiuole perfette. In questo spazio urbano semideserto si muove il protagonista, un ragazzo addetto alla pulizia dei marciapiedi. Il film costruisce sapientemente il rapporto del personaggio con l'ambiente attraverso long take fissi e lentissimi zoom. La città priva di identità schiaccia, letteralmente e metaforicamente, il ragazzo, la cui identità scompare con lui in un salto.

Di minore impatto visivo e ricercatezza di senso sono sicuramente 130 km to Heaven (Khaled Khella, Egitto) e Discipline (Christophe M. Saber, Egitto, Svizzera). Il primo racconta di due ragazzi che partono attratti da una proposta di lavoro sulle rive del Mar Rosso. Peccato che il lavoro non si riveli così eccitante come immaginavano e alla prima occasione cercano di prendere un bus per Sharm El Sheikh. Nella corsa finale sono racchiusi i sogni di una generazione intera, disposta a qualsiasi cosa pur di realizzarsi.
Disciplineè invece un divertente esperimento sociale. Girato in un negozio egiziano a Losanna, mette in scena le differenti risposte culturali innescate da un banale schiaffo a una bambina. È curioso notare come sia in Discipline che nel marocchino L'Homme au chien il ruolo del personaggio negativo sia ricoperto da un italiano.

Quest'ultimo cortometraggio (Kamal Lazraq, Marocco, Francia) si addentra nei quartieri malfamati di Casablanca per mostrarci lo spietato mondo dei combattimenti tra cani. Youssef, disperato per aver perso il suo cane, è costretto ad affrontare la realtà degli slums e della microcriminalità, rifuggite fino a quel momento, protetto da una vita agiata, oziosa e solitaria. Questo tour dell'orrore gli regalerà però un senso nuovo dell'amicizia e della solidarietà.

Unico film proveniente dall'Africa subsahariana è il burkinabéOulinine Imdanate (Michel K.Zongo, Burkina Faso, Francia). Il titolo è il nome del gioco che il cortometraggio mette in scena. Un bambino al centro di un cerchio veste i panni del capraio, ogni sera lo sciacallo arriva di nascosto e ruba una alla volta tutte le sue capre. Per trovare il colpevole i bambini andranno dal giudice, la cantante e poetessa tuareg Fadimata Wallett Oumar, che con semplice sapienza farà prevalere la verità. In una commistione di documentario e fiction, Oulinine Imdanate ci offre uno squarcio sull'infanzia e sull'importanza del gioco.

Ultimo film in concorso, passato inosservato, è un piccolo gioiello algerino, Passage à niveau (Anis Djaad, Algeria). A un vecchio guardiano di un passaggio a livello arriva una lettera il cui contenuto, non svelato allo spettatore, ha delle ripercussioni sulla sua vita: una tristezza crescente sovrasta le sue giornate. L'atmosfera rarefatta e sospesa è accresciuta sfruttando la luce dell'alba e del tramonto. I dialoghi sono essenziali. Il dolore segna il volto del personaggio, ne calca le rughe, ne amplia lo sguardo. I brani musicali intradiegetici che cantano la nostalgia dell'esule e del passato accompagnano i pensieri del guardiano, evocando nello spettatore lo struggimento di una perdita. "Cosa posso vedere? È solo più triste di prima". E con queste parole, accompagnate da un lungo, lento carrello indietro sui binari di quella stazione da custodire, Passage à niveau si conclude, lasciando che la profondità del non detto continui a parlarci ancora a lungo.

Valentina Lupi | 25. Festival del Cinema Africano, d'Asia e America Latina

4 Avril 1968
Regia: Myriam Gharbi; origine: Francia/Guadalupa, 2014.

The Dream of a Scene
Regia: Yasser Shafiey; origine: Egitto, 2014.

Père
Regia: Lofti Achour; origine: Tunisia/Francia, 2014.

Lazy Susan
Regia: Steven Abbott; origine: Sudafrica, 2015.

Excuse Me While I Disappear
Regia: Michael MacGarry; origine: Sudafrica, 2014.

130 kilometr Lel-Ganna
Regia: Khaled Khella; origine: Egitto, 2015.

Discipline
Regia: Christoph M. Saber; origine: Egitto, 2014.

L'Homme au chien
Regia: Kamal Lazraq; origine: Marocco/Francia, 2014.

Oulinine Imdanate
Regia: Michael K. Zongo; origine: Burkina Faso/Francia, 2014.

Passage à niveau
Regia: Anis Djaad; origine: Algeria, 2014.

Cannes 68. Lamb

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Dopo l'affermazione internazionale di Difret, il cinema etiope conosce una stagione di promettente visibilità che la proposizione a Cannes (Un Certain Regard) di questo Lamb, primo film della sua nazione ad essere ospitato in selezione officiale, potrà contribuire a rilanciare. Del resto, come Haile Gerima, Yemane Demissie e lo stesso Zeresenay Mehari, lo stesso Yared Zereke, nato in Etiopia nel 1978, ha fatto i suoi studi di cinema negli Stati Uniti (NYU nel suo caso) ed è riuscito a chiudere il suo primo lungometraggio solo a 38 anni, dopo una gavetta di diversi corti e documentari, e la costruzione di una complessa compagine produttiva, che ha coinvolto partner dislocati in Francia, Germania e Norvegia (ma non gli Stati Uniti). Questo dato potrà spiegare non pochi elementi nelle scelte di fondo di Zereke, a partire dallo sforzo di puntare su una ricerca di universalità che passa per la valorizzazione delle peculiarità culturali e paesaggistiche del suo paese d'origine.

Protagonista di questo apologo che con grande semplicità dà una spallata a diverse forme di discriminazione e chiusura – dallo specismo al genere, passando per la religione – segue le vicende di Ephraim (Rediat Amare), un ragazzino di nove anni che vive in un villaggio di montagna insieme al padre (Indris Mohamed) e a una pecora dal pelo lungo, Chuni, coccolata come una sorta di sorella. La morte della madre, causata dalla carestia a sua volta prodotta dalla siccità, costringe il padre a lasciare il villaggio e ad affidarlo alle cure della zia Emama e del cugino Solomon ma non tardano a manifestarsi i problemi per il piccolo Ephraim. Il capofamiglia Solomon lo vorrebbe con lui a lavorare nei campi e mette subito gli occhi addosso a Chuni per il rituale pranzo della festa della croce ma il ragazzo si trova più a suo agio con gli utensili da cucina che con l'aratro e, con la scusa di aiutare in famiglia, grazie alla complicità delle donne si ingegna a preparare sambusa che vende al mercato, con lo scopo di mettere da parte soldi per tornare al paese d'origine.

La vita della famiglia è turbata dalla salute fragile di una figlia piccola di Solomon e dai dissapori fra la moglie Azeb e la figliastra Tsion (Kidist Siyum), un'adolescente forte e sicura di sé che non vuole saperne di sposarsi e insegue il sogno di studiare agronomia ad Addis Abeba. Dopo un'iniziale diffidenza, tra Ephraim e Tsion si crea un attaccamento profondo, sigillato da alcuni segreti e dalla necessità di difendersi da tante piccole insidie quotidiane, come una banda di ragazzi di strada che tormenta Ephraim per chiedergli il pizzo sulle vendite al mercato o solo per sfregio, a causa della sua origine ebrea per parte di madre. La situazione per Ephraim precipita proprio quando Tsion, dopo l'ennesima lite con Azeb, prende il coraggio a due mani e scappa ad Addis mentre la sua adorata Chuni si accasa in un gregge di pecore, custodito da una pastorella musulmana di un villaggio vicino.

Lambè un'opera prima dalla struttura narrativa esile, che procede specie nella seconda parte un po' a strappi e sembra avanzare senza un principio di economia rigoroso. Lo stesso, insistito, ricorso alla musica – un mix di brani di pop locale, musiche tradizionali e una partitura originale ispirata a un regime transculturale, come a far da raccordo fra il mondo del film e quello di una platea eterogenea ideale di spettatori – alla lunga potrà risultare per taluni stucchevole. Ciononostante, la messinscena poggia su una buona scelta di materiali, dalle location suggestive agli interpreti non professionisti – su tutti i due giovanissimi scelti per i ruoli di Ephraim e Tsion. La stessa regia, che alterna fra primi piani e inquadrature perlopiù statiche d'insieme, con un ricorso molto parco ma efficace ai movimenti di macchina, risulta piuttosto sicuro. Al di là delle coordinate stilistiche, il film trasmette valori forti di attaccamento all'universo familiare presentato tuttavia anche nelle sue componenti repressive rispetto alle esigenze di libertà del singolo. Forte è l'attenzione a costruire personaggi dotati di un certo tasso d'integrità morale, solidi sul piano drammaturgico e in chiaroscuro, inseguendo il registro di una narrazione intimista che oscilla fra tenerezza e umorismo, collezionando piccoli traumi, momenti di prova e slanci verso un futuro di riscatto.

Leonardo De Franceschi | 68. Festival de Cannes

Lamb
Regia: Yared Zereke; sceneggiatura: Yared Zereke; musica: Christophe Chassol; fotografia: Josée Deshaies; montaggio: Véronique Bruque; costumi: Sandra Berrebi; interpreti: Rediate Amare, Kidist Siyum, Welela Assefa, Surafel Teka; origine: Etiopia, Francia, Germania, Norvegia, 2015; durata: 94'; produzione: Laurent Lavolé (Gloria Films) Ama Ampadu (Slum Kid Films), in coproduzione con Heimatfilm, ZDF, Film Farms, Dublin Films; distribuzione internazionale: Films Distribution.

Cannes 68. La Vie en grand

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Questa edizione del Festival verrà ricordata, grazie anche alla Palma d'Oro per Dheepan, come una nuova celebrazione del nazionalismo francese post-Charlie Hebdo, per l'accumularsi nelle varie sezioni di film in cui autori riconosciuti e meno hanno reso un tributo all'immagine della patria dei diritti dell'uomo e dei valori della Repubblica, che tutto e tutti copre indistintamente col suo laico ombrello. Quasi sempre, in questi film si scopre l'intento di accarezzare per il verso giusto il peso di una classe media ansiosa e che si vuole confermata nelle proprie sempre più precarie certezze ideologiche. La Vie en grand, opera prima di Mathieu Vadepied rientra pienamente in questa cornice politico-culturale, trattandosi di una produzione targata Gaumont, che ha alle spalle due campioni della diversità culturale per il grande pubblico come Eric Toledano e Olivier Nakache (Samba), qui in veste di padrini/produttori per il tardivo esordiente Vadepied, 52enne cineasta con un passato di direttore della fotografia (da Samba Traoré di Ouedraogo al blockbuster Quasi amici), scelto per chiudere la Semaine de la Critique di questo Festival di Cannes.

Adama (Balamine Guirassy) è un 14enne schivo ma sveglio di banlieue. Vive con la madre a Bondy, nella cinta esterna di Parigi e frequenta svogliatamente le superiori, arrotondando il magro bilancio familiare con un lavoretto saltuario al mercato. La madre ha appena lasciato il padre - ma ufficialmente si sono separati solo a causa della legge che impedisce in Francia la convivenza sotto lo stesso tetto di due o più co-spose, legalmente unite secondo il diritto islamico -, forse anche perché il padre stesso ha imposto il rientro forzato in Senegal del loro primogenito Kader, per punirlo delle sue cattive compagnie. Il quartiere è infatti ad alto tasso di delinquenza, le strade pullulano letteralmente di pusher e poliziotti. Adama assiste casualmente a uno scontro a fuoco tra bande e al rastrellamento notturno delle forze dell'ordine. All'indomani, l'amico del cuore di Adama, il piccolo Mamadou (Ali Bidanessy) mostra ad Adama un blocchetto di hashish caduto di mano probabilmente a qualche spacciatore inseguito dalla polizia e questo ritrovamento segna l'inizio di una piccola grande avventura.

In quattro e quattr'otto, i due decidono di impiantare un laboratorio rudimentale nel magazzino della scuola e di smerciare il fumo proprio ai compagni dell'ultimo anno. Gli affari vanno più che bene anche perché Adama riesce perfino a convincere il riottoso boss locale, vecchia conoscenza del fratello, a coinvolgerlo nel giro - col quartiere assediato nella polizia, il traffico langue e i due ragazzini passano per insospettabili - e ad affidargli quantitativi sempre più massicci di hashish da spacciare. L'improvviso afflusso di liquidi permette ad Adama di risolvere piccoli problemi familiari e togliersi il lusso di regalare scarpe a diversi ragazzini del vicinato ma esagera quando decide di investire una parte della somma dovuta al boss in una donazione anonima alla scuola indispensabile a garantire la partecipazione della sua classe a una gita a Londra. Il suo gioco viene scoperto solo in parte dai genitori ma grazie alla generosità di alcuni insegnanti e della preside (Joséphine De Meaux, attrice feticcio della premiata coppia) - pronti tutti a riconoscere le potenzialità di Adama e a piazzarlo in un collegio di pregio - Adama vede spalancarsi le porte di un futuro meno incerto.

La formula di Toledano e Nakache in chiave factory convince decisamente meno. Non che l'attenzione riservata da regista e sceneggiatori al microcosmo adolescenziale e urbano risulti viziato da finalità esterne alle logiche interne del racconto, costruito a cavallo fra realismo di base e trasfigurazione fantastica, secondo un registro drammaturgico che fa dialogare commedia, avventura e romanzo di formazione. Gli autori pagano soprattutto la scelta di appoggiarsi al punto di vista dei due ragazzini, dando spazio al rapporto privilegiato di Adama con gli insegnanti e con la preside illuminata più che a quello con genitori e fratelli, lasciato colpevolmente fuori fuoco. Lo squilibrio in termini di messinscena è rafforzato dalla scelta di interpreti non professionisti o ai loro inizi per i genitori mentre fra le controparti istituzionali di Adama ci sono due volti noti come Joséphine De Meaux (Quasi amici, Troppo amici, Les amants réguliers) e Guillaume Gouix (indimenticato serial killer nella serie di culto Les Révenants).

Il tropo del ragazzino-perbene-pusher-per-caso, che ritroviamo con qualche variante nello statunitense Dope, presentato alla Quinzaine, se lì viene trattato con una retorica survoltata, straniante e metadiscorsiva, qui viene declinato secondo le cadenze di una fiction da prima serata per famiglie, innocua ed edificante. Per il resto, l'impaginazione visiva di Vadepied, giocata molto su primi piani e illuminazione naturale e scandita dai riff di un commento musicale che rifà il verso alle partiture di Ludovico Einaudi per Toledano e Nakache, è corretta ma non regala punte memorabili.

Leonardo De Franceschi | 68. Festival de Cannes

La Vie en grand
Regia: Mathieu Vadepied; sceneggiatura: Mathieu Vadepied, Olivier Demangel, Vincent Poymiro; fotografia: Bruno Romiguière; montaggio: Marie-Pierre Frappier; costumi: Anne-Sophie Gledhill; musica: Krishoo Monthieux; interpreti: Balamine Guirassy, Ali Bidanessy, Guillaume Gouix, Joséphine De Meaux, Léontina Fall, Adama Camara, Bass Dhem, Aristide Tarnagda, Marion Ploquin; origine: Francia, 2015; durata: 93'; produzione: Bruno Nahon, Eric Toledano e Olivier Nakache per Unité de production, Ten Films, France 3 Cinéma; distribuzione francese: Gaumont

Antonio Campobasso al Palladium

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Di solito su Cinemafrica non ci occupiamo di arti dal vivo, per una precisa scelta editoriale ma stavolta l'evento meritava tutta la nostra attenzione. Stiamo parlando dell'attesa rentrée di Antonio Campobasso a teatro, per un one night show memorabile al Teatro Palladium di Roma, in programma domenica 31 maggio alle ore 21:15. L'attore pugliese, qui in scena col suo gruppo teatrale I Negri, formato con l'aiuto regista e costumista Carla Brait, porta in scena 'U jezzmen - Studio per un assolo a rischio per voce clandestina, monologo ispirato alla biografia di uno degli interpreti più maledetti del jazz, Charlie Mingus (1922-79), contrabbassista, pianista e compositore, considerato l'erede naturale di Duke Ellington, autore di un capolavoro insuperato come Epitaph (1990) e molto amato anche dai cinefili per la sua collaborazione con Cassavetes in Ombre (1961).

Il legame di Campobasso con la cultura e l'identità black parte da lontano. Antonio si definisce "fratello della Repubblica", essendo nato a Bari il 2 giugno 1946, da una donna pugliese e un soldato afroamericano, californiano, della Quinta Armata. Figlio della guerra, cresciuto dalla nonna a Triggiano, in provincia di Bari, in una situazione di povertà, discriminazione e isolamento, Antonio conoscerà prima l'orfanotrofio a nove anni, poi una fugace stagione di libertà da dropout a diciassette, di lì a poco il riformatorio e infine il carcere. Proprio il teatro e in particolare la frequentazione dello Studio Fersen, nel quale si diploma nel 1978, gli apre una nuova strada di affermazione, anche se la notorietà arriva nel 1980 con la pubblicazione per Feltrinelli di Nero di Puglia, straziante autonarrazione a cavallo fra lirismo e naturalismo che gli vale la partecipazione da finalista al Premio Viareggio e il Premio Fregene.

Nel 1981 realizza per la rubrica “Primo piano” di Rai Due lo special televisivo Ballata di un Nero di Puglia. Nel 1982 fonda il gruppo Ritoteatro e inizia un'intensa collaborazione con l'Assessorato alla Cultura della Provincia di Roma realizzando alcuni importanti laboratori teatrali, tre dei quali nel carcere romano di Rebibbia, dove mette in scena lo spettacolo Marat/Sade da Peter Weiss, che ottiene il Premio Nazionale della Critica Teatrale 1988. Le questioni dell'identità connesse all'insopprimibile ansia di libertà sono al centro di diversi allestimenti, realizzati nell'arco di oltre trent'anni di palcoscenico in cui l'interesse specifico per la cultura black emerge in spettacoli da Amiri Baraka (Dutchman, 1985-86), O'Neill (L'imperatore Jones, 1988) e Langston Hughes (Due negri al bar, 2000).
Più sporadiche le apparizioni sul piccolo schermo, in alcune fiction, tra cui L'onore e il rispetto 2, per la regia di Salvatore Samperi. Del 2006 la sua finora unica prova cinematografica, ne Il mercante di stoffe di Antonio Baiocco.

Quando qualche tempo fa, ispirato dalla lettura di “Peggio di un bastardo”, decisi di dare corpo e voce in un teatro di prosa alla figura di Mingus, uno dei personaggi più inquieti ed estrosi della storia del jazz, sicuramente il più"molesto", mi fu subito chiaro che ciò che volevo "innescare" sulla scena era la sua indole umana e psicologica, i suoi umori, la sua trasgressione, il suo stato limite (e persino la sua violenza) nella parola. La parola con i suoi ritmi, i suoi pretesti, le sue minacce... La sua maledizione. E questo perché sulla scena con Mingus ci sono anch'io, con i miei fermenti, le mie ansie e la mia necessità di scavare nei silenzi urlati e marciti tra le mura del carcere e del manicomio.
Ho concepito “'U jezzmen” come una partitura jazz, giocando con le parole, la lingua, la gestualità e lo spazio come fossero ciascuno lo strumento di una band che insegue e si nutre di una melodia per trasgredire alla prima occasione. Una drammaturgia segnata da sfuriate verbali in dialetto pugliese e da concitati passaggi musicali.

Per maggiori informazioni, consultare la scheda dello spettacolo (qui).

Cannes 68: Much Loved

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Marrakech, oggi: Noha, Randa e Soukaina vivono insieme, amiche inseparabili e solidali, anche se a volte litigano violentemente. Tre donne sole, ognuna con un difficile passato familiare alle spalle, che si guadagnano da vivere facendo le prostitute. Oggetti del desiderio, corpi soppesati e toccati, sfruttati e insieme rifiutati. A darle aiuto, solo il mite autista e tuttofare Said, a cui poi si aggiungerà una quarta donna, Hlima, appena arrivata dalla campagna.
Questa in breve la sinossi di Much Loved, il sesto lungometraggio del franco-marocchino Nabil Ayouch, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs: un ritratto scandaloso e irriverente sulla condizione femminile in Marocco che non riesce però a sottrarsi al pervasivo potere degli stereotipi di genere.

Ognuna delle tre donne ha una storia difficile alle spalle.
La forte Noha, che è un po' la maitresse del gruppo, mantiene con il suo mestiere la famiglia, che vive nella Medina (madre, fratello, sorella e un figlio che ha dovuto lasciare alle cure della nonna): una famiglia che prima la disprezza e poi finisce per rifiutarla totalmente. Neanche con l'amante francese di mezza età va molto meglio: sparisce per lungo tempo, quando moglie e figlia sono presenti, per poi tornare da lei, a dirle che l'ama e a pregarla di passare con lei la vita, ovvero una notte di passione.
Soukaina appare tanto sicura e sensuale nel suo mestiere quanto dimessa e succube nei rapporti poco chiari con un giovane che l'aspetta di tanto in tanto, davanti il palazzo dove le tre vivono: forse un fidanzato che lei di fatto mantiene e che la costringe alle sue voglie, come in una scena di sesso rubato e animalesco.
Ronda, invece, non ha mai conosciuto suo padre, che ha visto solo una volta a quattro anni e che sa vivere in Spagna: la sua meta vagheggiata per rifarsi una vita. Lei è la timida e sensibile, una lesbica non dichiarata, che scopre di essere attratta da una donna francese, in una serata in discoteca, e con lei avrà la sua prima volta al femminile, anche questa però a pagamento (nonostante lei dica alla francese che “il denaro non è importante”).
Le tre donne vengono spesso invitate ai festini orgiastici organizzati da un gruppo di sauditi, felici di poter comperare tutto con il loro denaro: serate a base di alcol, musica, danze e sesso. Serate in cui il valore in denaro delle donne, si misura dalla loro capacità di sedurre e di farsi docilmente umiliare. Uno di loro in particolare si invaghisce di Soukaina, che diventa la sua ossessione e che continua a corteggiare senza mai riuscire a fare sesso con lei. Quando Soukaina si rende conto che si tratta di un gay non dichiarato, esplode la violenza. Soukaina finisce in ospedale e ad attenderla ci sono le sue amiche, un amico travestito che si prostituisce per strada e l'immancabile Said. In ospedale raccolgono e adottano anche Hlima, una giovane arrivata dalla campagna, incinta, costretta a prostituirsi e a dormire per strada per sopravvivere.
La violenza scatena la rabbia di Noha che, ubriaca, va a lanciare pietre ed insulti contro l'abitazione dei sauditi, che però la denunciano e la fanno arrestare: naturalmente, la violenza continua. Un poliziotto, che la tiene d'occhio da un po', violenta Noha e poi le promette di liberarla se lei denuncerà una delle sue amiche al suo posto. Ma Noha non si perde d'animo. Tornata a casa chiede alle altre tre donne e a Said di cambiare un po' aria: andranno in vacanza al mare, come delle vere signore. Le lasciamo di spalle, a guardare il mare e a chiedersi se vale la pena di tornare a Marrakech per ricominciare la loro vita di prostitute…

Il film si regge dal punto di vista narrativo ed emotivo sull'interpretazione appassionata e credibile delle interpreti, che sanno dare corpo a questo sguardo durissimo su una società declinata al maschile e soprattutto in cui tutte le relazioni umane sembrano essere determinate solo dal denaro e da rapporti di potere. Proprio per questo i momenti più riusciti del film sono proprio quelli più intimi e quotidiani, in cui le donne parlano fra loro, si confessano, si scontrano, si sostengono.

Detto questo, a mio avviso Ayouch non riesce davvero a liberarsi dai cliché che mette in campo e che sembra in qualche modo denunciare: non andiamo oltre il prevedibile immaginario della donna araba forte e sensuale, che è insieme vittima e ribelle, creando una sorta di gineceo solidale ed indipendente, ma solo all'apparenza: per essere indipendenti, c'è bisogno del denaro e per avere il denaro le donne si sottomettono. Se in parte è proprio questa contraddizione quella che si vuole rivelare nel film, lo sguardo di Ayouch non riesce a sottrarsi e a sottrarre lo spettatore da un gusto scopofilo, dal retrogusto morboso, che non fa che ripetere e mimare lo sguardo maschile violento e dominatore su queste donne. Così come il film sembra essere il sunto perfetto, ma superficiale, di alcuni personaggi e temi ricorrenti nel cinema di Ayouch, ma anche di un certo cinema maghrebino: una comunità ai margini della società, fatta di prostitute, travestiti e bambini di strada preda dei turisti stranieri.
Anche l'aspetto dello scandalo – il film è stato da poco censurato in Marocco – sembra più fare riferimento al gusto occidentale che alla realtà marocchina, e soprattutto, anche nel voluto approccio scandaloso, realistico e disturbante, si ripropongono alcuni tabù: guarda caso, l'unica scena di sesso che non viene mostrata, pur essendo anche quella a pagamento, è quella lesbica.

L'impressione finale è quella di un film dalla confezione impeccabile e accattivante, nonostante o forse proprio grazie al naturalistico e crudo ritratto sociale, che però mette troppa carne al fuoco, con troppi spunti che non vengono davvero approfonditi e rimangono solo sulla superficie, sulla carne, appunto, delle sue protagoniste.

Al Palais, durante il festival, in coda per entrare a vedere un altro film, un francese di mezza età, visibilmente appassionato di cinema, raccontava ad alcune amiche il film con (più o meno) queste parole: “Tre giovani donne che si divertono, hanno gli uomini in pugno e sono padrone della loro vita… solo che hanno qualche problema con la famiglia… in breve il sogno di ognuno!”.
Si direbbe un altro film da quello che ho visto io. O forse è questo quello che il film rischia di scatenare, se l'immagine patinata e accattivante prevale sulla giusta distanza cinematografica nello sguardo del regista, che sembra quasi suggerire in questo quartetto di personaggi una sorta di Charlie's Angels del sesso a Marrakech.

Maria Coletti | 68. Festival di Cannes

Much Loved
Regia: Nabil Ayouch; soggetto e sceneggiatura: Nabil Ayouch; fotografia: Virginie Surdej; montaggio: Damien Keyeux; musica: Mike Kourtzer; interpreti: Loubna Abidar (Noha), Asmaa Lazrak (Randa), Halima Karaouane (Soukaina), Sara Elmhamdi Elalaoui (Hlima), Abdellah Didane (Saïd); produzione: Saïd Hamich, Eric Poulet, Nabil Ayouch per LES FILMS DU NOUVEAU MONDE, BARNEY PRODUCTION - France, NEW DISTRICT, ALI N' PRODUCTIONS - Maroc; distribuzione francese: Pyramide Films; vendite internazionali: Celluloid Dreams; formato: 2K, colore, 1.85 ; origine: Francia/Marocco, 2015; durata: 108'.

Much Loved censurato in Marocco

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Vietato in Marocco Much Loved , il film di Nabil Ayouch presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes. Il governo ha imposto il divieto di proiezione della pellicola nelle sale del regno perché il film rappresenta una "grave offesa per i valori morali e per la la donna marocchina", oltre che una "offesa per l'immagine" del paese.

Much Loved affronta il tema della prostituzione proponendo i ritratti di diverse donne. "Le autorità marocchine competenti hanno deciso di non autorizzare la proiezione" del film, si legge in un comunicato del ministero della Comunicazione del governo guidato dal partito di ispirazione islamica Giustizia e Sviluppo (Pjd). La censura è scattata dopo che "esperti del Centro cinematografico marocchino hanno visionato il film durante una proiezione nell'ambito di un festival internazionale", spiegano le autorità con un chiaro riferimento al Festival di Cannes.

[Maria Coletti]

Pitza e Datteri

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A cinque anni di distanza dal suo ultimo lungometraggio, Fariborz Kamkari torna nella sale con una commedia ambientata a Venezia, Pitza e Datteri. Distribuito dalla Bolero Film, l'ultimo lavoro del regista curdo è nelle sale italiane con 60 copie dal 28 maggio.
Nel 2010 il film I fiori di Kirkuk, presentato al Festival di Roma, ha avuto successo in molti altri festival Internazionali vincendo molti premi: tratto dall'omonimo romanzo scritto dallo stesso Kamkari, il film racconta una storia d'amore disperata in uno scenario di guerra e la protagonista è una donna forte, intelligente e coraggiosa.
Pitza e Datteriè una commedia divertente, leggera, delicata ma intelligente, nella quale si ricorda la libertà e il diritto di pregare per ogni uomo e ogni donna, qualunque sia il suo credo, in qualunque posto si trovi, perché c'è spazio per tutti.

Un giorno come tanti, nella moschea di Venezia si prega in diretta skype con un Imam al Cairo. I Carabinieri entrano nella moschea, arrestano un uomo e in breve la comunità musulmana si ritrova senza un luogo in cui pregare perché Zara, la ex moglie dell'uomo arrestato, decide di riprendersi il locale affittato alla comunità per ristrutturarlo e aprire un negozio di parrucchiere unisex. La comunità, composta da un piccolo gruppo di credenti provenienti da vari paesi, tra cui un egiziano, capo della comunità (Hassani Shapi), un curdo (Giovanni Martorana), un africano (Gaston Biwolè) e un italiano convertito (Giuseppe Battiston), si trova senza un luogo dove pregare e decide di far venire un Imam per risolvere il problema. Arriva così un giovanissimo Imam dall'Afghanistan, un ragazzo che tiene gli occhi bendati per non essere corrotto dall'Occidente e che, colpito dall'odore del mare che non ha mai visto, decide di togliersi la benda e osservare. Iniziano una serie di rocamboleschi tentativi per riconquistare la moschea perduta fino a quando non arriva un aiuto inaspettato.

Pitza e Datteriè all'apparenza una semplice commedia ma con elegante naturalezza si spinge oltre raccontando con toni a volte da fiaba il possibile mondo ideale e non violento nel quale tutti hanno diritto a professare liberamente la propria fede. Kamkari arriva a questo facendo scontrare e confrontare i protagonisti con le storture e le contraddizioni del fondamentalismo. Tra i vicoli e i canali di Venezia il regista curdo aziona una macchina che mette a confronto uomini e donne, estremismi e diverse religioni, evitando i luoghi comuni o portandoli all'eccesso per mostrarli nella loro follia. La prima soluzione che l'Imam offre alla comunità per riprendersi la moschea è la lapidazione della bella Zara (Maud Buquet). Ma Kamkari porterà lo scontro tra l'Imam e Zara fino all'eccesso per poi arrivare a un punto d'incontro e comprensione reciproca profonda.

Il regista gioca con i vari elementi portandoli fino all'estremo per poter poi arrivare ad un punto di equilibrio: questo vale per tutti con una eccezione, Bepi, l'unico italiano del gruppo convertito all'Islam, il più fondamentalista, che alla fine del film diventa il simbolo della follia degli estremismi religiosi. In Pitza e Datteri si mescolano molti elementi e si riflette su quante possibili soluzioni ci siano per risolvere un problema venendo incontro alle esigenze di tutti. Mentre gli uomini cercano di riprendere per forza il locale di Zara, le donne all'interno del salone, discutono e si confrontano. Fatima (Esther Elisha) musulmana e rivoluzionaria, conduce le donne nella battaglia per i loro diritti, compreso quello alla preghiera. Il giovane Imam che soffre per la presenza di tutta l'acqua che li circonda, così tanta da terrorizzarlo, è la chiave per il cambiamento: un ragazzo orfano cresciuto in un ospedale gestito da italiani, trova se stesso e capisce come essere un buon Imam per la sua comunità, iniziando proprio a gestire quella di Venezia, facendo pregare insieme uomini e donne.

In un'ora e mezza di film Kamkari mostra l'evoluzione di una piccola comunità musulmana, un microcosmo che esplode a causa delle sue contraddizioni e degli estremismi e che riesce però a ricomporsi con un nuovo sereno e pacifico equilibrio.

Alice Casalini

Pitza e Datteri
Regia: Fariborz Kamkari; sceneggiatura: Antonio Leotti, Fariborz Kamkari; fotografia: Gogò Bianchi; musiche originali: L'Orchestra di Piazza Vittorio; montaggio: Mirco Garrone; scenografia: Susanna Codognato; costumi: Francesca Leondeff; interpreti: Giuseppe Battiston, Maud Buquet, Mehdi Meskar, Hassani Shapi, Giovanni Martorana, Gaston Biwolè, Esther Elisha, Monica Zuccon, Hafida Kassoui, Glaucia Paola Virdone, Leonardo Castellani, Alessandro Bressanello; origine: Italia, 2015; formato:1.85, Dolby Digital; durata: 92'; produzione: Far Out Films in associazione con Adriana Chiesa Enterprises e Acek; distribuzione: Bolero Film; sito ufficiale: https://www.facebook.com/pitzaedatteri

Cannes 68: Fatima

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Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs, Fatima di Philippe Faucon conferma il talento e la giusta distanza dello sguardo del regista, con un intenso ritratto corale di una madre di origine algerina e le sue due figlie alle prese con l'integrazione. Il film coup de coeur di Cannes 2015 - insieme a Mediterranea di Jonas Carpignano - per noi di Cinemafrica.

Fatima è una madre sola. Separata dal marito, si occupa con dedizione assoluta delle sue due figlie: Souad, 15 anni, adolescente ribelle, e Nesrine, 18 anni, studentessa fiera e motivata. Fatima vive con frustrazione la sua poca padronanza della lingua francese ed anche per questo cerca di dare il massimo per l'educazione delle figlie. Lavora come donna delle pulizie e alterna le sue ore di lavoro presso privati e uffici, per mettere da parte i soldi per la scuola di Souad e per pagare gli studi all'università e una stanza in affitto per Nesrine. I rapporti con le figlie però non sono facili: soprattutto con Souad, che vive con rabbia la loro condizione di cittadine di serie B e rinfaccia alla madre il suo lavoro di domestica. Per Nesrine è diverso: lei sta investendo tutto nei suoi studi, ma anche l'eccessiva dedizione all'università e agli esami da superare sono a volte un fardello troppo pesante, una responsabilità enorme da portare sulle spalle, consapevole dei sacrifici che la madre sta facendo per lei. Un giorno, però, Fatima cade dalle scale. Un incidente che la costringe a stare a riposo e a prendere coscienza della sua frustrazione e delle parole non dette. Così, aiutata da una dottoressa, inizia a scrivere un diario in arabo, una lettera alle figlie per comunicare tutto quello che non è riuscita a dire a parole.

Questa la sinossi del film, che prende corpo, forza ed emozione attraverso gli sguardi, i corpi, le parole delle tre superbe interpreti. Si percepisce, dalla loro splendida prova attoriale, anche il lavoro attento e lungo che Faucon ha fatto con loro, a cominciare dal lavoro sul libro a cui il film è ispirato. Fatima è in fatti ispirato a una storia vera e al libro frutto di questa storia: Prière à la lune di Fatima Elayoubi - presente e commossa alla presentazione ufficiale a Cannes - una donna che, come la protagonista del film, si è trasferita in Francia al seguito del marito, senza sapere né leggere né scrivere, ha lavorato come donna delle pulizie ed ha imparato il francese quasi da autodidatta, trovando poi nella scrittura il suo riscatto, sociale e morale.

Una vicenda che, come ha spiegato il regista - nato in Marocco e vissuto per i suoi primi anni di vita in Marocco e in Algeria - gli ha ricordato anche l'esperienza dei suoi nonni e di sua madre: anche loro non parlavano il francese e per questo erano persone invisibili nella società in cui vivevano e lavoravano: “Per tutte queste ragioni, queste donne hanno sviluppato, malgrado la loro ignoranza e le loro difficoltà, delle capacità molto importanti, facendo venire alla luce un coraggio e una ostinazione feroci”.

Alla sua quinta prova, dopo L'Amour, Samia, La Trahison e La Désintégration, Faucon conferma il suo talento nel raccontare storie coinvolgenti con un approccio documentario. In Fatima riesce a costruire tre intensi ritratti di donne di età diverse e di differenti ambienti sociali, ognuno sviluppato con amore e capacità di ascolto e di sguardo. Fatima, Souad, Nesrine non sono figurine o personaggi stereotipati, ma tre donne in carne ed ossa, disegnate a tutto tondo. Con una delicatezza particolare, il regista presta attenzione al rapporto fra madre e figlie nelle sue differenti sfumature: lo scontro e il tentativo di dialogo con Souad, il sostegno e la confidenza intima con Nesrine. E anche le sfide con cui si confrontano ogni giorno le due ragazze appaiono nella loro semplicità e insieme come punti di svolta che a volte possono sembrare insormontabili: Souad chiusa a riccio nella sua rabbia contro l'umiliazione subita dalla madre, e che non riesce ad esprimere altrimenti; Nesrine, razionalmente consapevole della sfida che sta lanciando quando decide - proprio lei, umile ragazza di “seconda generazione” - di studiare medicina per diventare una dottoressa e non una semplice infermiera.

La caduta di Fatima arriva quindi come un incidente, ma anche come un lapsus che diviene letterale: cadere, lasciarsi andare, per essere una volta tanto lei ad essere accudita, ma anche per ripensare alla sua vita, avere il tempo di guardare a se stessa e alle sue figlie in maniera diversa. La sua lettera accorata che legge alla dottoressa e poi a Nesrine, è come un'operazione a cuore aperto, uno svelamento della sua identità in trasformazione. Finalmente è una donna che trova le parole per raccontare chi sono e cosa fanno le “tante Fatima” senza le quali le donne francesi non potrebbero lavorare, avere figli, avere interessi e divertimenti.

Nelle sue parole liberate, e nei dialoghi più intimi con le sue figlie, il regista ci fa capire quanto la lingua possa davvero dare senso al mondo e come genitori e figli siano legati, in rapporto alla società. La frase con cui Fatima riassume le difficoltà con le figlie, vale più di cento film di banlieue e cento politiche di integrazione solo a parole: “Là où un parent est blessé, il y a un enfant en colère” (Dove c'è un genitore ferito, c'è un figlio arrabbiato). Così come viene delineato con pochi tratti l'universo concentrazionario che spesso sono le periferie: con i francesi che discriminano i migranti e i migranti stessi che si ostacolano fra loro, in una guerra fra poveri in cui non si può tollerare, non si può immaginare che qualcuno ce la faccia ad uscire dalle gabbie sociali precostituite in cui ci si trova immersi.

Il film Fatima riesce a condensare nel tempo cinematografico il tempo denso e ricco della vita: la frustrazione e la voglia di cambiamento, la rabbia e il desiderio di farcela, l'affetto e la disperazione, il dolore e la resistenza. Tutto senza stereotipi e grandi colpi di scena. Come spiega Fatima nelle sue lettere: “è la mia Intifada quotidiana”.

Maria Coletti | 68. Festival di Cannes

Fatima
Regia: Philippe Faucon; soggetto e sceneggiatura: Philippe Faucon, liberamente ispirato dai libri Prière à la lune e Enfin, je peux marcher seule di Fatima Elayoubi (Editions Bachari); consulenti sceneggiatura e dialoghi: Aziza Boudjellal, Yasmina Nini-Faucon, Mustapha Kharmoudi; fotografia: Laurent Fénart; suono: Thierry Morlaas-Lurbe; costumi: Nezha Rahil; montaggio: Sophie Mandonnet; musica: Robert-Marcel Lepage; interpreti: Soria Zeroual (Fatima), Zita Hanrot (Nesrine), Kenza Noha Aiche (Souad), Chawki Amari (il padre); produzione: Yasmina Nini-Faucon, Philippe Faucon per Istqlal Films, Serge Noel per Possibles Média, Nadim Cheikhrouha per Tanit Films; distribuzione francese: Pyramide; vendite internazionali: Pyramide International; sito: http://distrib.pyramidefilms.com/content/fatima; formato: colore, 1.85, Dolby 5.1; origine: Francia/Canada, 2015; durata: 79'.

Cannes 68: Oka

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Presentata fuori concorso, fra le proiezioni speciali, l'ultima opera del maliano Souleymane Cissé, Okaè una sorta di diario filmato che raccoglie le memorie cinematografiche dell'autore e un triste processo famigliare.

Iniziando dal primissimo piano di una statua di legno e da una leggenda maliana, Cissé traccia la genealogia della sua famiglia, a Bamako, presente nell'antico quartiere di Bozola da generazioni e generazioni, e poi racconta il suo amore per il cinema, dal gioco con le ombre per i suoi amici, da fanciullo, nel cortile della casa familiare, fino al lavoro sul set, con la figlia più piccola tra le dune del film Yeelen. La sua memoria si sposa allo sguardo amoroso sul presente e sui più piccoli della sua famiglia, ma insieme si fa racconto di denuncia su un caso di sopruso istituzionale subito dalle sue sorelle, sfrattate con violenza (l'irruzione della polizia meticolosamente ricostruita), e in causa per poter rientrare ad abitare quella che è la “loro casa”, il legame con i genitori e gli antenati, e anche tutto il loro patrimonio.
Il dolore familiare dell'autore si mescola poi al dolore per la consapevolezza di una stagione politica ancor più triste per il Mali, vittima della guerra e della crescente minaccia dell'integralismo religioso e del terrorismo che non hanno nulla a che vedere con la tradizione di accoglienza e convivenza del Paese.

Okaè un'opera ibrida e singolare, che non riesce a trovare una giusta sintesi e a raggiungere lo splendido melange di racconto e poesia, tipico di tutti i suoi capolavori, da Den Muso a Waati. Ma sicuramente è un film in linea con uno dei temi conduttori del festival, ovvero “Familles je vous aime”, come ha sottolineato anche Thierry Frémaux alla presentazione ufficiale del film: un film che è una complessa storia di famiglia e un atto d'amore per il cinema, ma anche il ritorno a Cannes di un regista legato da un'amicizia particolare con il Festival.

Souleymane Cissé, con i suoi 75 anni e i suoi 5 capolavori (Den Muso, Baara, Finye, Yeelen, Waati), può essere considerato come un nuovo “doyen des doyens”, sul modello del senegalese Sembène. Un regista acclamato nel continente africano e vincitore per due volte (con Baara e Finye) dell'Etalon d'Or al FESPACO, lo storico festival panafricano di cinema che si svolge dal 1969 ogni due anni a Ouagadougou in Burkina Faso. Ma un maestro del cinema africano (e non solo) che è stato riconosciuto anche all'estero, in modo particolare proprio sulla Croisette: primo regista dell'Africa subsahariana ad essere premiato nel 1987 con Yeelen e poi più volte ospite del festival, in selezione ufficiale, membro della giuria ufficiale nel 1983 e presidente della Cinéfondation nel 2006. Un regista omaggiato giustamente anche dalla seconda edizione del festival Cines del Sur di Granada nel 2008, con una retrospettiva e un volume in spagnolo e in inglese ("Souleymane Cissé. Con los ojos de la eternidad / With the Eyes of Eternity"), che è stata la prima monografia in assoluto dedicata a un grande maestro di cinema, che ho avuto l'onore di scrivere con Leonardo De Franceschi, grazie al compianto Alberto Elena. Poi ripubblicato in italiano nel 2009 con Kaplan (Souleymane Cissé. Con gli occhi dell'eternità), aggiungendo una parte anche sull'ultimo film presentato a Cannes, ovvero Min ye.

Cisséè un cineasta poetico ed insieme combattente, che è stato anche in prigione in seguito alla censura operata sul suo primo lungometraggio, Den Muso, dedicato alla condizione femminile: un tema che starà sempre a cuore al regista e che ritorna in un modo o nell'altro in tutti i suoi film, nei suoi capolavori, ma anche in Min ye (che affrontava il tema della poligamia) e ora in Oka, in cui ad essere coprotagoniste con lui ci sono soprattutto le sue quattro sorelle, simbolo di resistenza e di dignità di fronte alle storture della giustizia e alla violenza del potere. E proprio con il simbolo che rappresenta la donna, "Muso" in bambara, si apre il film.

Il magma denso e a volte ripetitivo della materia del film mette in rilievo l'accumulo di materiali e di idee per un film che il regista voleva a tutti i costi fare dal 2008 e che infatti è dedicato ad un'altra pietra miliare del cinema africano, la montatrice e amica Andrée Davanture, morta lo scorso anno, a cui è dedicato Oka.
Le parti più riuscite del film sono quelle più poetiche e più diaristiche, in cui Cissé si mette in scena, anche in lacrime, e si lascia andare al flusso del ricordo, della memoria, sul filo del suo amore per il cinema e della voglia di combattere e di raccontare. Di essere vicino alle sue sorelle. Un flusso denso anche di citazioni, soprattutto da Finye. Mentre il film diventa troppo ripetitivo e pesante quando mette in scena la causa legale in seguito allo sfratto subito dalle sorelle e quando cerca di fare un legame con la situazione politica attuale del Mali e con la minaccia dell'integralismo.

Speriamo di cuore che l'essere riuscito a far venir fuori tutta questa materia dolorosa e personale aiuti Cissé a ritrovare presto le sue ispirazioni più alte e a concentrarsi di nuovo su un soggetto potente in cui riesca a ritrovare la sua sintesi perfetta fra la realtà del racconto e l'astrazione della poesia.

Maria Coletti | 68. Festival di Cannes

Oka
Regia: Souleymane Cissé; soggetto e sceneggiatura: Souleymane Cissé; fotografia: Xavier Arias, Fabien Lamotte, Thomas Robin, Soussaba Cissé; montaggio: Andrée Davanture, Youssouf Cisse, Marie-Christine Rougerie, Clémence Diard; suono: Yrié Sabo, Vincent Defaye, Joel Rangon; interpreti: Souleymane Cissé, Magnini Koroba Cissé (prima sorella), Aminata Cissé (seconda sorella), Badjeneba Cissé (terza sorella), M'ba Cissé (quarta sorella); produzione: Sise Filimo/Les Films Cissé; vendite internazionali: Orange Studio; origine: Mali, 2015; formato: colore, versione originale bambara; durata: 96'.

Cannes 68: Dope

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Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs, il regista Rick Famuyiwa – dopo essere stato apprezzato al Sundance e aver realizzato tre film di culto (The Wood, Brown Sugar e Our Family Wedding) – ha conquistato pubblico e critica con il suo Dope, una tragicommedia di formazione dal ritmo hip hop ambientata nei sobborghi di Los Angeles e che si prende gioco degli stereotipi di razza e di genere in maniera efficace ed originale.

Tre amici (due ragazzi e una ragazza) – il protagonista di origini nigeriane Malcolm, l'afro-latino Jib (nero al 14% come lui stesso dice) e l'afro-lesbica Diggy – sono dei geeks (ovvero dei “secchioni”) e sopravvivono a Inglewood, un duro sobborgo di Los Angeles fra la scuola pubblica, le interviste per le iscrizioni al college sognando Harvard, le bande di strada che li minacciano e l'amore per l'hip hop anni '90, che sublimano con la loro band punk-rock.
Tutti e tre incantati dalla bellezza della vicina di casa Nakia – anche lei studentessa, ma corteggiata da Dom, il boss di una gang del quartiere che ha lasciato gli studi – Malcolm, Jib e Diggy finiscono per essere invitati proprio da Dom a una megafesta, che si conclude con una rissa con scontro a fuoco e in seguito alla quale i tre rimangono invischiati in un giro di droga. Intelligenti e solidali, Malcolm, Jib e Diggy riescono a cavarsela alla grande, mettendo su, per liberarsi del malloppo, addirittura lo smercio di un nuovo tipo di droga attraverso la rete, ma in maniera anonima, utilizzando il laboratorio scientifico della scuola. Malcolm, che è un po' la mente geniale del gruppo, continua a sognare Harvard e, dopo i colloqui e la lettera di motivazione, ci lascia alla fine del film con un punto interrogativo e una lettera di risposta fra le mani: sarà o no accettato dalla prestigiosa università americana? Del resto, come lui stesso ci chiede, provocatoriamente guardando in camera, “perché voler andare a Harvard dovrebbe essere strano per un nero e non per un bianco?”.

Dopeè un film che lascia il segno, ben costruito, con un'ottima direzione di attori e caratterizzato da un montaggio veloce e serrato, che trae forza ed energia dalla musica e da trovate squisitamente divertenti, ma sempre intelligenti. Un film che riesce ad essere popolare e da “grande pubblico”, un “teen movie” intellettuale e irriverente, senza perdere in profondità e in compiutezza formale, senza scadere in luoghi comuni e in banalità triviali, ma anzi riuscendo in maniera leggera e precisa a giocare con le aspettative dello spettatore e a rovesciare gli stereotipi di razza e di genere più comuni. Soprattutto quando si parla di afroamericani, o di neri in generale, e di sobborghi. Il regista mette in chiaro fin da subito la polisemicità del suo testo, quando spiega nel cartello iniziale che "dope" può significare tre cose: una persona stupida, una droga o un aggettivo, sinonimo di "eccellente".

Nella lettera di motivazione che Malcolm alla fine scrive per essere ammesso all'Università parla di due ipotetici studenti neri del quartiere: uno è un secchione intelligente e motivato, che non si mescola con la vita di strada e che dovrà dimostrare di valere molto di più degli altri per farcela; l'altro invece non ha voglia di studiare e si getta nella vita di strada, fra traffici illeciti, pistole e, come unica prospettiva di vita, se non viene ucciso prima, la prigione. Malcolm, invece, dice di aver scoperto di essere insieme entrambi gli studenti: essere più cose contemporaneamente, del resto, permette di avere sguardi differenti e una visione più complessa del mondo.

Ed è proprio su questa visione volutamente complessa e a più punti di vista che si fonda magistralmente il film di Famuyiwa, che riesce a tradurre in linguaggio cinematografico le riflessioni contemporanee sulle identità– di genere, di razza, di religione, ecc – come costrutti sociali e culturali, non definiti una volta per tutte, ma in continuo movimento e in una continua ridefinizione di sé e dei propri confini. Il regista mescola e continuamente ridefinisce i personaggi e i luoghi comuni che in qualche modo rappresentano, per dare vita a una sorta di prisma delle identità in grado di sabotare i nostri pregiudizi, come un hacker dell'immaginario contemporaneo.
In questo senso, anche l'utilizzo abbondante di tutti i “trucchi” dell'epoca di internet e del digitale (montaggio veloce, il racconto che si ferma e va avanti e indietro, lo split screen, la musica che diviene parte della storia, ecc. ecc.) non sono una appendice tecnologica del film, per vendere meglio o dare prova di maestria, ma sono pienamente funzionali al racconto e alla definizione dei personaggi.

Forest Whitaker, che ha prodotto il film, in cui “compare” anche come voce narrante, ha avuto un fiuto eccezionale: credo sentiremo ancora parlare del talento di Rick Famuyiwa.

Maria Coletti | 68. Festival di Cannes

Dope
Regia: Rick Famuyiwa; soggetto e sceneggiatura: Rick Famuyiwa; fotografia: Rachel Morrison; suono: Chase Keehn, Bruce Barris; montaggio: Lee Haugen; scenografia: Scott Falconer; musica: Germaine Franco (compositore), musica originale di Pharrell Williams; costumi: Patrik Milani; interpreti: Shameik Moore, Tony Revolori, Kiersey Clemons, Kimberly Elise, Chanel Ima, Keith Stanfield, A$ap Rocky; produzione: Forest Whitaker per Significant Productions, IamOTHER Entertainment, Revolt Films; distribuzione: Open Roads Films; sito ufficiale: http://youaredope.com/; formato: 2K, colore, 2.35:1; origine: Usa, 2015; durata: 105'.

Inizia domani al MUDEC Africa Classics

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Continua a Milano la programmazione di classici del cinema africano, in occasione della mostra “Africa. La terra degli spiriti” allestita al Mudec – Museo delle Culture, a cura del Festival del Cinema Africano, d'Asia e America Latina, in collaborazione con il Comune di Milano: ogni giovedì di giugno, in occasione delle aperture serali del Museo.

Dopo la proposta cinematografica della settimana del Festival (4-10 maggio 2015), che ha inaugurato l'Auditorium del Mudec con le proiezioni di 6 titoli della storia del cinema africano restaurati dalla World Cinema Foundation di Martin Scorsese in collaborazione con la Cineteca di Bologna, il programma continua per tutti i giovedì di giugno a partire da giovedì 4 alle ore 19.30.

3 maestri del cinema internazionale per 4 capolavori senza tempo che continuano il programma speciale di proiezioni per ripercorrere cronologicamente la storia del cinema africano, dalle sue origini ai riconoscimenti nei maggiori festival internazionali.

Domani si inizia con un importante classico dal Senegal presentato nel 1966 alla Settimana Internazionale della Critica di Cannes: si tratta del primo film di fiction africano che ha di fatto introdotto l'Africa nel circuito cinematografico internazionale: La Noire de… di Sembène Ousmane, la cui versione restaurata da Scorsese è stata presentata a Cannes qualche settimana fa nella sezione Cannes Classiques.

Tratto da una novella dell'autore, ispiratosi ad una notizia di cronaca apparsa su Nice-Matin, il film narra la tragica vicenda di Diouana, una domestica senegalese a servizio di una famiglia di cooperanti francesi. Trasferitasi ad Antibes per seguire i suoi padroni, la giovane subisce un processo di alienazione inesorabile. Analfabeta e di umili origini, Diouana non intravede alcuna possibilità di integrazione sociale. La solitudine e l'isolamento nella casa di “Madame” diventeranno insopportabili.

Un film che è un'opera di una pungente attualità e dalla forte valenza sociale e di denuncia come si evince dalle stesse parole dell'autore che, così, lo aveva commentato: “In questo film denuncio tre cose: il neocolonialismo (mi chiedo, perché la tratta degli schiavi continua ancor oggi?), la nuova classe africana composta generalmente da burocrati e una certa forma di assistenza tecnica“.

La programmazione proseguirà poi per ogni giovedì di giugno con altri titoli del catalogo COE che hanno segnato la storia del cinema: dal Burkina Faso Yaaba (Nonna) e Tilaï (La legge) le due più importanti opere di Idrissa Ouédraogo premiate a Cannes rispettivamente nel 1989 con il Premio della Critica Internazionale alla Quinzaines des Realisateurs e nel 1990 con il Grand Prix du Jury e, dal Senegal, Hyènes (Iene) del visionario Djibril Diop Mambéty tratto dalla celebre novella di Dürrenmatt La visita della vecchia signora, qui rivisitata in chiave africana.

Programma Africa Classics
4 giugno, h. 19.30 | La Noire de… di Sembène Ousmane
11 giugno, h. 19.30 | Yaaba di Idrissa Ouédraogo
18 giugno, h. 19.30 | Tilaï di Idrissa Ouédraogo
25 giugno, h. 19,30 | Hyènes di Djibril Diop Mambéty

Per info:
www.mudec.it

[Maria Coletti]

Dall'11 giugno in sala Finding Fela

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Presentato con successo due edizioni fa al Sundance Film Festival, dall'11 giugno nelle sale italiane arriva grazie a Wanted Finding Fela!, il film su Fela Kuti, il musicista rivoluzionario che ha inventato l'afrobeat. Fela Kuti - Il potere della musica, diretto dal regista Premio Oscar Alex Gibney racconta la vita, la musica, il ruolo politico e culturale e l'eredità del genio assoluto dell'afrobeat, il nigeriano Fela Kuti, musicista, rivoluzionario e attivista dei diritti umani. Noto per il suo impegno costante, il suo stile di vita anticonvenzionale e il suo coraggio, Fela è stato uno dei musicisti più controversi di sempre.

Il feature documentary di Gibney - il regista statunitense che ha conquistato l'Academy nel 2008 denunciando col suo Taxi to the Dark Side il trattamento dei prigionieri durante gli interrogatori in Iraq, Afghanistan e a Guantanamo dopo l'11 settembre - racconta come Fela abbia creato un nuovo movimento musicale, l'afrobeat: esprimendo grazie alla musica le sue opinioni politiche, Fela si è scagliato contro il governo dittatoriale nigeriano degli anni '70 e '80 contribuendo a un radicale cambiamento in chiave democratica in Nigeria e promuovendo la politica panafricana in tutto il mondo. Il potente messaggio del "presidente nero", testimoniato anche dallo strepitoso successo dello show dedicato alla sua vita in scena a Broadway, rimane ancor oggi di assoluta attualità e si esprime nei movimenti politici dei popoli oppressi, che abbracciano la sua musica e il suo pensiero nella loro lotta per la libertà.

[Leonardo De Franceschi]


Faucon e Ayouch da Cannes a Roma

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Ufficializzato il programma della manifestazione “Le vie del cinema da Cannes a Roma”, che si svolgerà dal 10 al 15 giugno in quattro sale storiche della capitale: Alcazar, Eden Film Center, Giulio Cesare ed Intrastevere. Il pubblico potrà assistere a molti film tra i più apprezzati a Cannes, provenienti dal Concorso e dalle altre sezioni ufficiali del Festival: Un Certain Regard, Semaine de la Critique e Quinzaine des Réalisateurs, tutti proposti in anteprima assoluta ed in versione originale con sottotitoli in italiano.

Fra i titoli in programma, segnaliamo in particolare Fatima di Philippe Faucon e Much Loved di Nabyl Ayouch, due dei titoli più visti e commentati della Quinzaine des Réalisateurs, accomunati da una riflessione sulla condizione femminile, con un'interesse particolare per le relazioni transculturali e le dinamiche di sfruttamento legate al mondo del lavoro. Se il francese Fatima si concentra sul disagio materiale e simbolico di una migrante algerina nella Francia di oggi, alle prese con due figlie di seconda generazione dai caratteri diversi che cercano di affermarsi negli studi, Much Loved affronta con un piglio provocatorio la condizione di alcune sex workers di Marrakesh, indipendenti dagli uomini ma risucchiate loro malgrado da responsabilità familiari e rapporti di forze che non lasciano loro margini di riscatto.

Sul sito di Agis Anec Lazio è possibile trovare tutte le informazioni del caso e il programma integrale della manifestazione. Vi rimandiamo alla lettura delle nostre recensioni, Fatima e Much Loved.

[Leonardo De Franceschi]

In sala Diamante nero (Bande de filles)

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Dal 18 giugno arriva nelle sale italiane grazie a Teodora Film, dopo un anno dalla sua presentazione, il film della talentuosa Céline Sciamma, Diamante nero, titolo italiano di Bande de filles (titolo originale).

Bande de filles era stato proprio il film di apertura della Quinzaine des Réalisateurs 2014 ed è anche il film con cui Céline Sciamma chiude idealmente il trittico sui temi dell'adolescenza al femminile e della scoperta della sessualità iniziata proprio a Cannes nel 2006 con La Naissance des pieuvres (prix Louis Delluc come migliore opera prima) e proseguita col più noto e celebrato Tomboy, presentato alla Berlinale e distribuito anche da noi.

Per chi non lo ha visto a Cannes, un film assolutamente da non perdere!

Qui la nostra recensione:
http://www.cinemafrica.org/page.php?article1463

[Maria Coletti]

Cannes 67. Bande de filles (Diamante nero)

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In occasione dell'uscita in sala con Teodora Film dal prossimo 18 giugno, con il titolo italiano Diamante nero, ripubblichiamo la nostra recensione del film dal Festival di Cannes del 2014.

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Una delle scelte forti di questa Quinzaine des Réalisateurs è la scelta di aprire con Bande de filles, con cui Céline Sciamma chiude idealmente il trittico sui temi dell'adolescenza al femminile e della scoperta della sessualità iniziata proprio a Cannes nel 2006 con La Naissance des pieuvres (prix Louis Delluc come migliore opera prima) e proseguita col più noto e celebrato Tomboy, presentato alla Berlinale e distribuito anche da noi. Se ce ne occupiamo qui è perché questa nuova coming of age story vede per protagoniste quattro ragazze nere che da noi verrebbero definite “di seconda generazione”, cresciute a Bagnolet, una banlieue alla periferia orientale di Parigi.

Marieme (Karidja Touré) vive in una famiglia di cinque. La madre fa le pulizie in un hotel di lusso; Djibril detta legge, unico uomo in famiglia, ma fa poco dalla mattina alla sera, se non giocare alla playstation o vagare per il quartiere; le due sorelle più piccole vanno a scuola e naturalmente guardano a lei come un modello. Anche Marieme va a scuola ma i risultati non brillanti spingono i dirigenti scolastici a orientarla verso una scuola di avviamento al lavoro. Inferocita, Marieme viene avvicinata da un gruppo di tre ragazze spavalde e aggressive, con i capelli piastrati, che vorrebbero trascinarla con loro: Lily (Assa Sylla) si atteggia a capo, Adiatou (Lindsay Karamoh) è la più pronta a buttarla sullo scherzo, Fily (Marietou Touré) quella riservata. Insieme a loro, ribattezzata col nome di battaglia di Vic, Marieme si lascia andare al piacere della scorribanda, che si tratti di vessare una ragazzina per mettere insieme i soldi e fare una festa per quattro in una camera d'albergo o si attaccare verbalmente una banda femminile concorrente.

Ognuna delle altre tre in realtà conduce una sorta di doppia vita. Nei fine settimana o la sera mettono su l'aria da dure per giocarsela da pari con i ragazzi nella legge del più forte. Marieme/Vic trova nella complicità delle ragazze il piacere di fare insieme delle cose in libertà, senza doverne rendere conto all'autorità di padri o fratelli maggiori, ma l'equilibrio precario rirtovato salta presto, allorché Lily viene sconfitta e umiliata in pubblico dalla leader della banda rivale, Djibril scopre che Marieme esce proprio con l'amico Bébé (Simina Soumaré) e la madre cerca di convincerla a fare le pulizie insieme a lei. A quel punto Marieme prende il coraggio a due mani e lascia il quartiere, guadagnandosi da vivere col vendere droga nelle feste borghesi per il boss locale Abou (Djbril Gueye). Ma l'isolamento, l'incertezza di Bébé e la paura di finire nel giro della prostituzione la mettono nella condizione di dover prendere una decisione drastica sul suo futuro.

Sul piano della narrazione, Bande des femmes si presenta con una struttura rapsodica assai singolare. Il punto di vista pressoché unico è quello di Marieme/Vic ma, pur procedendo secondo una progressione monopuntuale e lineare, il racconto si dirama ben presto in diverse direttrici nelle quali viene articolato il rapporto tra la protagonista e il fratello o le sorelle, la madre, le ragazze del gruppo, Bébé, e via dicendo. Inoltre, le varie tappe del percorso di crescita personale della protagonista, spesso ma non sempre collegate ad eventi che vedono coinvolte altre ragazze della banda, come l'umiliazione subita da Lily e la rivincita che Marieme stessa si prende sulla leader rivale, sono seguiti da momenti di nero e ripartenze improvvise e imprevedibili.

Sul piano della scrittura filmica, Sciamma compie delle scelte controcorrente. Laddove ci si aspetterebbe un naturalismo esasperato, con macchina a mano, luce naturale e riprese dal vero, la regista si muove secondo logiche sue proprie, che mescolano verismo e formalismo, calco documentario e reinvenzione. Le giovanissime interpreti vengono tutte dalla strada e sono alla loro prima esperienza sul grande schermo, ma per riprenderle Sciamma sceglie stavolta soluzioni “pesanti” come il travelling ripetuto, la ripresa in continuità, il cinemascope e la ricostruzione integrale degli interni in studio, senza peraltro che questo partito preso prenda il sopravvento sulla drammaturgia o sulla direzione attoriale. Molto libera e felice l'articolazione del montaggio e l'utilizzo della colonna sonora: al tema elettronico pulsante di Para One, la regista mescola la ripresa di pezzi di volta in volta hip hop o pop. Tra i momenti di maggiore impatto liberatorio, le due sequenze in cui le ragazze si lasciano andare alla musica, nel primo caso ballando e cantando Diamond sulle note di Rihanna, all'interno della stanza d'albergo che hanno preso per una festa notturna a quattro; nel secondo improvvisando assoli hip hop all'aperto, a pochi passi dall'arco della Défense.

In altri momenti, nei quali invece si fa strada la violenza che è legge nella banlieue, si ha l'impressione che Sciamma metta volutamente tra parentesi il proprio punto di vista, ma la forza del film sta proprio in questo suo sguardo complice ma non ricattatorio, coinvolto senza essere populista, antimoralista ma lontano da immedesimazioni ambigue, con cui, grazie anche alla straordinaria prova d'insieme delle interpreti e in particolare al profilo mutevole e impenetrabile della protagonista, la regista incornicia le sue ragazze, ciascuna delle quali vive di una mirabile luce propria, irriducibile a compiti narrativi o pseudosociologici. Da questo punto di vista, Bande de filles declina insieme questioni di genere, classe, “razza”, e arricchisce costantemente la fenomenologia della “seconda generazione” con intelligenza, proprio col suo tenere dritta la barra sull'individualità. Perché se ciascuno e ciascuna a suo modo fa i conti con la condizione adulta, o si ridefinisce sul piano di genere, lo stesso può dirsi per tutti gli altri ambiti che chiamano in causa la linea del colore e le eredità del colonialismo, e Bande de filles ce lo ricorda, anche questo senza volere.

Leonardo De Franceschi | 67. Festival de Cannes

Bande de filles
Regia: Céline Sciamma; sceneggiatura: Céline Sciamma; fotografia: Crystel Fournier; montaggio: Julien Lacheray; scenografia: Thomas Grézaud; suono: Pierre André, Daniel Sobrino; musiche: Para One; interpreti: Karidja Toure, Assa Sylla, Lindsay Karamoh, Marietou Toure; origine: Francia, 2014; formato: DCP, colore; durata: 112'; produzione: Bénédicte Couvreur per Hold-up Films e Lilies Films; distribuzione internazionale: Films Distribution

Domani un incontro su William Demby all'AAR

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Da domani, giovedì 11 giugno, presso l'American Academy in Rome (via Angelo Masina, 5) prende il via una serie di incontri sul lavoro degli artisti afroamericani e più in generale afrodiscendenti nella sfera culturale italiana. Il primo "caso" oggetto di riflessione è William Demby (1922-2013), straordinaria figura di intellettuale afroamericano, attivo a cavallo fra letteratura e cinema nell'Italia di circa quattro decenni, dai Cinquanta agli Ottanta. L'incontro verrà coordinato da due moderatori, Silvia Lucchesi, direttrice del festival Lo Schermo d'arte di Firenze, e dallo storico dell'arte Christian Caliandro.

Originario di Pittsburg, poco più che ventenne William Demby fu arruolato nella 92a divisione dei Buffalo Soldiers, e sul fronte collaborò alla rivista dell'esercito Stars and Stripes. Dopo essersi laureato alla Fisk University, Demby tornò a Roma, dove si stabilì sposandosi nel 1950 con la sceneggiatrice Lucia Drudi. Sempre nel 1950 pubblicò il suo primo romanzo, Beetlecreek (Festa a Beetlecreek, tradotto da Fernanda Pivano), ambientato in una località di provincia degli States e solo quindici anni dopo (1965) il secondo, The Catacombs (Le catacombe, tradotto nel 1967 da Lucia Drudi), ambientato nella Roma della Hollywood sul Tevere e della Dolce vita. In questo quindicennio, collaborò con molti artisti e letterati attivi nella capitale, scrivendo alcuni testi di canzoni per Laura Betti.

Fino al 1965 visse stabilmente nella capitale, lavorando spesso come sceneggiatore e dialoghista o traduttore verso l'inglese di sceneggiature, in collaborazione con Fellini, Rossellini (Europa '51) e altri registi. Eccezionalmente, è apparso come attore in un film raro di Camillo Mastrocinque del 1952, Il peccato di Anna, nel quale recita nel ruolo di un jazzista americano a Roma ossessionato dal rimorso di un delitto per il quale è stato condannato ingiustamente un amico d'infanzia poi diventato un noto attore di teatro. In seguito, dopo il divorzio dalla prima moglie, Demby si è ritrasferito nel 1965 negli Stati Uniti ma è tornato spesso in Italia per lunghi soggiorni nella sua villa fuori Firenze.

[Leonardo De Franceschi]

Per il diritto alla fuga e alla vita. Giornata Mondiale del Rifugiato

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Aderiamo alla Giornata Mondiale del Rifugiato che si svolgerà il prossimo 20 giugno alla Città dell'Altra Economia di Roma, che si aprirà alle 18 e si chiuderà alle 22 con il concerto gratuito della musicista Dobet Gnahoré [nella foto].

Tante le associazioni che aderiscono all'importante iniziativa promossa dalla Città dell'Altra Economia - CAE, dall'Istituzione Biblioteche di Roma/Roma Multietnica e dal Comitato per un Centro Interculturale a Roma.

Di seguito il comunicato ufficiale

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PER IL DIRITTO ALLA FUGA E ALLA VITA
Sabato 20 giugno 2015 – Giornata Mondiale del Rifugiato

Città dell'Altra Economia - Largo Dino Frisullo – h. 18.00

“Se hai perso la tua casa e il tuo negozio, perché restare? O muori, o scappi via”.
(AbdelRahman, 50 anni, dalla regione di Deraa)

L'anno trascorso per chi vive la condizione di rifugiato, per chi è in attesa del riconoscimento del diritto di protezione e asilo e soprattutto per chi non sa se ce la farà ad attraversare il tratto di mare che lo separa dalla salvezza o se riuscirà a sfuggire ai trafficanti di esseri umani, è stato uno dei più drammatici. Eppure se ai lutti e al dolore fosse possibile aggiungere qualcosa è sopraggiunto in questi ultimi giorni il raccapriccio determinato dallo svelamento, ad opera della magistratura, che su quei lutti e quella condizione operava una corruzione cinica e insensibile. Un doppio danno sulla pelle dei migranti. La conseguenza è che chi già si opponeva ai piani di salvataggio per i rifugiati ne ha ricavato il pretesto e l'alibi per chiudere ulteriormente le porte dell'accoglienza e della protezione.

Proprio per questo e contro tutto ciò riteniamo che ci si debba mobilitare il 20 di giugno, nella giornata internazionale del rifugiato: per non chiudere quelle porte e perché non si affermi il paradosso di addossare ai rifugiati il danno causato da chi ha lucrato sulla loro condizione. Una mobilitazione che spetta, innanzitutto, alle centinaia di associazioni di volontariato che operano senza altra ambizione che affermare il rispetto dei diritti fondamentali e i valori primari di umanità e solidarietà.

Il diritto di sfuggire alla morte, alla violenza, alla persecuzione o al fatto di essere discriminati per ciò che si è dalla nascita, per le proprie convinzioni religiose, culturali o politiche, o per l'appartenenza a un gruppo, a una confessione o a un'etnia, è un valore universale, che precede e va oltre le legislazioni dei singoli Stati e il merito degli accordi internazionali specifici. Si tratta di un principio assunto solennemente dalle Nazioni Unite più di sessanta anni fa; un principio che ci riguarda tutti, direttamente; e, ancora di più, riguarda i nostri valori fondamentali, il nostro sistema giuridico, la tutela delle libertà e delle garanzie in esso racchiuse, il presente e il futuro della nostra convivenza civile.

Il 2014 e questo scorcio di 2015 hanno fatto registrare un aggravamento e un inasprimento delle guerre in medio-oriente, nell'Africa sub sahariana, fino alle coste del nord Africa; ed è stato accompagnato da un bollettino quotidiano di morti e di dispersi nel Mediterraneo. I numeri di ogni singola tragedia, già impressionanti, sono stati superati da quelle successive, e da quelle di cui non si ha notizia. La chiusura di Mare Nostrum ha, come prevedibile, aumentato le tragedie.

Altre vittime senza nome sono quelle che abbiamo perso durante le traversate dei deserti; oppure cadute nelle mani dei nuovi schiavisti; oppure asfissiate, nei container dei Tir che si muovono verso la frontiera nord orientale. Giungono intanto notizie di sempre maggiori violenze, di torture e soprusi nei confronti di chi attende di partire, consumate dalle organizzazioni degli scafisti, unica vera autorità di molte coste.

Anche per chi trova una temporanea salvezza in Europa – attraverso le “porte” italiane, spagnole o greche – il diritto all'asilo e alla protezione è messo in discussione nei fatti, dalle inadeguatezza di molte regole comunitarie e dalla reticenza di molti governi. Mentre il mare e la morte non distinguono tra i Paesi di provenienza, si vorrebbero introdurre in Europa distinzioni etniche, per centellinare e discriminare sul diritto d'asilo, procrastinando di fatto il dovere dell'accoglienza.

Un sistema ambiguo, disorganizzato, gestito burocraticamente, in perenne emergenza, ha fatto emergere il malaffare e la corruzione, esponendo i migranti e gli operatori che se ne occupano ai mali antichi e nuovi delle metropoli, alle contraddizioni che scaturiscono dai problemi sociali irrisolti, alle proteste di chi già vive in condizioni di disagio e di malessere. Di nuovo, in Italia e nel vecchio continente, si è assistito alla ricerca del capro espiatorio, al quale addossare colpe e risentimenti.

Eppure, i numeri degli sbarchi e degli ingressi di rifugiati e migranti sono imparagonabili, di fronte alla catastrofe umanitaria provocata dalla guerra irachena o da quella siriana, dal dissolvimento d'interi stati in Africa, dal diffondersi dell'integralismo e del terrore nell'Africa subsahariana.

Per queste ragioni, noi riteniamo che la giornata del 20 giugno prossimo, dedicata in tutto il mondo alla condizione del rifugiato, non debba e non possa essere celebrata quest'anno in modo rituale, dando spazio alla pura retorica. Il 20 giugno può essere per tutti noi – cittadine e cittadine, associazioni, movimenti, operatori, organizzazioni di volontariato e di solidarietà sociale, in molte città italiane e in specialmodo per la Capitale – l'occasione per richiedere alle autorità nazionali e a quelle europee che venga invertita l'attuale tendenza della discussione istituzionale, e che venga immediatamente bloccata la strage in corso nel Mediterraneo.

Per chiedere che vengano attivati corridoi umanitari e luoghi sicuri di accoglienza, anche nei Paesi di partenza; perché vengano salvati tutti i profughi, strappandoli al giogo e all'arbitrio dei trafficanti di esseri umani; perché vengano riconsiderati radicalmente gli accordi di Dublino; perché sia predisposto un piano organico di accoglienza e, soprattutto, di integrazione: senza politiche organiche di integrazione – come è storia di ieri e di oggi – la condizione dei rifugiati è fatalmente esposta alle lacerazioni, ai pregiudizi e ai conflitti che attraversano le nostre società.

Anche sul fronte dell'informazione, occorrerà una mobilitazione forte e continua, per contrastare quelle tendenze che – piuttosto di informare sulle dimensioni reali del problema e sulle possibili soluzioni – fanno leva sui sentimenti della paura e del rancore. Basta pensare al ricorso così frequente, e del tutto improprio, del termine “invasione”, per denotare ciò che è un diritto, sancito dall'articolo 14 della Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite.

Crediamo che sia giunta l'ora di un'assunzione forte di responsabilità, in nome dei fondamentali valori di umanità che noi condividiamo, per il rispetto e la difesa integrale del sistema giuridico che abbiamo accolto e stabilito. E anche perchéè giunto il momento di accettare consapevolmente una realtà– quella della la fuga di intere popolazioni da un pericolo concreto e imminente di morte – dalla quale si può forse distogliere lo sguardo quanto si vuole, ma che non fermerà le decine di migliaia di profughi che intendono sottrarsi a quel destino.

Per questo, la città di Roma parteciperà alla Giornata del 20 giugno con la mobilitazione convinta di cittadini, di volontari, di operatori sociali, di grandi e di piccole associazioni, di organizzazioni non governative, di istituzioni e di singoli, impegnati da tempo nell'accoglienza, nel dialogo e nella reciproca integrazione con chi arriva da altri Paesi: soggetti e realtà che rappresentano la risposta migliore, al pericolo di assuefazione, di indifferenza a di intolleranza rispetto alle stragi, alla paura, al dolore e al dramma dell'esilio.

Ma, soprattutto, daranno il senso più ricco e più forte di questa Giornata le voci, i volti, le culture, la musica, i costumi, i colori e i racconti dei tanti rifugiati che a Roma già vivono.

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